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Da oggi faccio io

È l’aprile del 2011 quando l’edizione
americana di Wired intitola la sua storia di copertina How to Make Stuff
e le dà l’eloquente
sottotitolo The DIY Revolution Starts Now: non è quel numero di Wired a far nascere ciò che oggi si chiama Makers Movement – e difatti l’espressione
in quelle pagine non c’è, si preferisce il più tecnico “digital fabrication” – ma di sicuro rappresenta un momento
spartiacque, perché porta alla
ribalta un fenomeno che fino ad allora sembrava solo una propaggine tecnologicamente
molto avanzata del classico DIY (Do It Yourself, il nostrano fai-da-te) che
negli Stati Uniti ha sempre avuto una grande forza. Circa un anno dopo Chris
Anderson, ex direttore di Wired USA e autore del pezzo portante nella cover
story che abbiamo citato, pubblica Makers – The New Industrial Revolution,
un libro che (questo sì) consacra definitivamente il
fenomeno Makers come qualcosa che va molto oltre l’interesse
e l’impegno
degli appassionati e può persino, come indica il titolo, portare una nuova rivoluzione
industriale e quindi cambiare profondamente modelli di business che si
credevano immutabili.

È possibile che in un anno le cose maturino a
tal punto che un fenomeno appena giunto alla ribalta diventi una rivoluzione
industriale? In parte sì e in parte no. La parte “no” sta nel fatto che la
rivoluzione delineata da Anderson per ora resta marginale se confrontata con i
numeri dell’industria globale, la parte “sì” nel
fatto che i segnali deboli descritti nel 2011 sono ora forti ed evidenti, sulla
scia di una evoluzione tecnologica che sta effettivamente cambiando le carte in
tavola e può coinvolgere
davvero chiunque di noi. Cerchiamo di capire come, partendo dalle tecnologie.

Il mondo
della stampa 3D

Per molti
il concetto di Maker e quello della digital fabrication, ossia la produzione
fisica degli oggetti a partire da un semplice file digitale, sono legati
soprattutto alle tecnologie di stampa tridimensionale, che invece sono solo una
parte del fenomeno. Del resto la carica “rivoluzionaria” del
movimento Maker la comunica, meglio che qualsiasi saggio, un romanzo di Cory
Doctorow del 2009, il cui tema portante è proprio la distribuzione in migliaia di esemplari delle stampanti 3D
che, unita alla condivisione via Internet degli schemi degli oggetti da
realizzare, riesce a creare una economia diffusa con una fortissima carica
innovativa, tanto da mettere in crisi aziende globali che operano praticamente
in un monopolio. Quella di Doctorow è quasi fantascienza, specialmente se consideriamo che è stata scritta cinque anni fa, ma ha il grande
merito di mettere in evidenza come la diffusione di tecnologie produttive a
basso costo (dispositivi personali che “fanno” materialmente cose)
avrà impatti altrettanto importanti di quelli che
ha avuto la diffusione di massa delle tecnologie informatiche. La produzione
industriale classica viene, insomma, paragonata ai vecchi mainframe degli anni
Cinquanta-Sessanta. Come allora sembrava impossibile che le informazioni
sarebbero mai state gestite direttamente da chi poi le doveva utilizzare, oggi
sembra assurdo che una produzione vagamente significativa di oggetti di consumo
avvenga fuori dalle fabbriche della produzione di massa. Le stampanti 3D stanno
contribuendo a rendere possibile proprio questo, anche se al momento l’idea che
ognuno utilizzi una stampante 3D con la stessa semplicità e gli stessi costi di una stampante
tradizionale è solo un
obiettivo a tendere, più per una questione di effettiva utilità che per una di costi.

La stampa
3D rientra nel campo dell’addictive manufacturing perché crea oggetti aggiungendo strati dopo strati di
materiale. Semplificando molto, nei modelli più comuni di stampanti 3D è presente una testina di “stampa” (più correttamente un estrusore) che si muove su un
piano e deposita gocce microscopiche di materiale plastico o metallico
riscaldato ad alta temperatura che si solidifica a contatto con l’aria o
sotto l’azione di una piccola sorgente ultravioletta.
Completato in questo modo lo strato di base di un oggetto, la testina si sposta
di una frazione di millimetro e depositando altre gocce costruisce lo strato
superiore, e così via sino
ad aver realizzato del tutto l’oggetto. A monte ci deve
essere ovviamente lo schema dell’oggetto stesso, che viene
disegnato con un programma di modellazione tridimensionale, fatto a
“fettine” trasversali (come in una TAC) per permettere la stampa
additiva e convertito nei comandi necessari a pilotare opportunamente la sua
testina della stampante 3D.

Non c’è solo questa forma di stampa 3D. Le stampanti di
fascia più alta,
fuori dalla portata economica del singolo appassionato, di solito usano un
processo denominato sinterizzazione: si deposita uno strato di povere plastica
o metallica e un raggio laser molto preciso colpisce e solidifica il tracciato
della “fetta” di oggetto da realizzare, poi questa si abbassa di una
frazione di millimetro, viene depositato un nuovo strato di polvere e il
processo di fusione al laser si ripete per lo strato superiore. Sostituiamo la
polvere con un polimero liquido e il laser con un raggio ultravioletto, ed ecco
la stereolitografia, un terzo processo di stampa additiva.

Qualunque
sia l’approccio di stampa utilizzato ci sono due
vantaggi immediati rispetto ai processi tradizionali di manifattura
industriale. Il primo è che i processi additivi permettono di realizzare forme normalmente
impossibili, perché non fanno
differenza tra interno ed esterno di un oggetto ma realizzano entrambi nello
stesso tempo. Il secondo sta nella possibilità di svolgere uno stesso processo di costruzione
additiva con più materiali
plastici (o anche banalmente con lo stesso ma in colori diversi) o con leghe di
più materiali metallici, utilizzando più estrusori che spruzzano materiali diversi
oppure fondendo polveri differenti. Oggi la stampa 3D è comunemente adottata in molti processi
produttivi, anche in settori che non seguono certo l’innovazione
per il gusto della novità, come ad esempio l’industria
aeronautica e aerospaziale. L’adozione è più o meno prudente a seconda dei comparti e per ora il settore davvero
completamente conquistato è quello della prototipazione, ma tutti sono d’accordo
sul fatto che queste tecnologie prenderanno sempre più piede.

Il singolo
appassionato ha ovviamente possibilità di scelta diverse rispetto a un’azienda, ma una stampante 3D
personale non è un
investimento poi così impegnativo. Tra i modelli commerciali fanno da riferimento quelli
di MakerBot e 3D Systems, due nomi storici della stampa 3D: la prima propone la
stampante Replicator 2 a 2.199 dollari e il modello più evoluto 2X con doppio estrusore a circa 2.799;
la linea “personal” della seconda comprende il modello monocromatico
Cube a 1.199 euro e il CubeX per la stampa a tre colori a 1.999 euro. Per
spendere meno ci si può rivolgere ai modelli nati dal progetto open source RepRap: l’estetica è più spartana ma il processo di stampa segue lo stesso approccio e i
prezzi – assai
variabili perché i modelli
reperibili sono davvero molti – possono scendere anche a 600-700 euro per un kit da assemblare in
proprio. Tutti questi modelli stampano fondendo un filamento di materiale
plastico (di solito PLA o ABS) che viene fornito sotto forma di bobina. La
stampa ha una risoluzione verticale (lo spessore di ogni strato del nostro
oggetto) che varia da modello a modello ma che normalmente è di un decimo di millimetro e quindi più che sufficiente per oggetti di uso normale.

L’open
hardware

Facciamo
un salto indietro nel tempo di qualche anno, ai tempi in cui incominciavano a
diffondersi nelle automobili i primi sistemi sonar di assistenza al parcheggio
integrati nei paraurti. Sembravano un optional avveniristico e di sicuro pochi
pensavano a montarli nella propria vettura, anche perché nessun venditore di accessori li offriva.
Torniamo a oggi: chi abbia un minimo di dimestichezza con l’assemblaggio
può scaricare da Internet lo schema open source di
un sistema del genere, con tanto di codice per programmarlo a piacimento, poi
acquistare online tutti i componenti (schede logiche, rilevatori di distanza,
resistenze, microcontroller…) e divertirsi a montare la
propria soluzione su misura. Certo ci vuole una certa abilità con il saldatore, ma la differenza rispetto ad
anni fa, quando l’elettronica era un mondo solo per addetti ai
lavori, è abissale.

Questo
esempio delinea sinteticamente le dinamiche del cosiddetto “open
hardware”, ossia la trasposizione nel mondo hardware dei principi e delle
dinamiche che abbiamo già visto all’opera per il software open
source. L’azienda-simbolo di questo movimento è tutta italiana e nasce a Ivrea: è Arduino, che ha avuto l’idea di
progettare una piccola scheda logica (una “board”) programmabile con
facilità – almeno per chi abbia una certa familiarità con la programmazione in C – cedendo subito in open source lo schema della
scheda stessa. In questo modo chiunque ha subito potuto realizzare delle schede
logiche proprie ma compatibili con Arduino per quanto riguarda lo sviluppo di
programmi e la disposizione e il funzionamento dei pin a cui collegare sensori,
attuatori, LED, batterie, motori passo-passo, moduli wireless e quant’altro. I
moduli meno elementari – ad esempio proprio i sensori per il rilevamento delle distanze, o i
chipset Wi-Fi e Bluetooth – hanno librerie software proprie che estendono l’ambiente
di programmazione Arduino (anch’esso rigorosamente open
source) e così permettono
di scrivere programmi che utilizzino le loro funzioni. O anche semplicemente di
assemblarli, perché come è tipico dell’open
source è probabile
che la soluzione al nostro specifico problema l’abbia già sviluppata qualcun altro e l’abbia
messa a disposizione di tutti attraverso Internet.

Le board
compatibili con Arduino sono ormai decine, di tutti i tipi, e anche i modelli
della stessa azienda di Ivrea si sono differenziati fra loro per coprire un’ampia
gamma di esigenze. La maggior parte è basata su un microcontroller Atmel, quindi su un processore sì versatile ma poco potente, mentre le nuove
generazioni di board offrono processori in linea con quelli dei computer
desktop degli anni Novanta, ma con le dimensioni di un pacchetto di sigarette o
persino meno. Anche in questo caso è il mercato a dimostrare che non si tratta di una moda solo da
appassionati: Intel ha da poco presentato (e proprio in Italia) Galileo, una
sua board compatibile Arduino dotata di un processore che definisce “di
classe Pentium” e di caratteristiche (una porta di rete Ethernet,
interfacce USB…) tali da poterla utilizzare in una gamma
molto ampia di applicazioni. Non è invece compatibile con il mondo Arduino, ma rappresenta ugualmente
un filone importante dell’open hardware, il
“nanocomputer” Raspberry Pi. Da segnalare poi che in questo settore è entrata anche VIA Technologies, noto
produttore di schede madri per PC, lanciando poco più di un mese fa la famiglia di prodotti
Springboard, piccole schede logiche che si caratterizzano per la presenza a
bordo di uno slot per le schede SIM di connettività cellulare.

Come per
la stampa 3D, anche l’open hardware è in realtà un approccio che va oltre i singoli prodotti, pure importanti. Anche
in questo caso il concetto di fondo è che l’evoluzione tecnologica mette il singolo in
grado di costruire da sé dei dispositivi elettronici secondo la sua ispirazione o le sue
necessità. E anche di utilizzare le board open source
per portare nuove funzioni a dispositivi che già esistono. Nulla vieta – e infatti è stato già fatto – di usare
una board Arduino per comandare via wireless una macchina per il caffè o per far twittare un termostato. O anche un
cuscino, se è per
quello. Non c’è limite
alla fantasia e anche le idee più strane possono creare un mercato: oggi ad esempio diverse aziende,
note e meno note, propongono sensori di umidità e temperatura da inserire nei vasi delle
piante e che dialogano con applicazioni per smartphone, in modo da segnalarci
quando annaffiare le begonie se non abbiamo il pollice abbastanza verde, ma i
primi esemplari di oggetti di questo tipo sono stati dispositivi open hardware
basati appunto su Arduino.

L’importanza
della condivisione

La
tecnologia trasforma il singolo in un produttore (un Maker, appunto) potenziale
ma non si può fare tutto
da soli, essere in rete (intesa come Internet ma anche come insieme di rapporti
e relazioni) amplifica enormemente le nostre possibilità. Una
stampante 3D personale può non bastarci, possiamo aver bisogno di strumenti di produzione che
non sono ancora alla portata del singolo (ad esempio i plotter laser che
tagliano lastre di plastica o metallo), la nostra idea può richiedere comunque un investimento iniziale
eccessivo per le nostre sole forze, più banalmente possiamo aver bisogno di qualcuno che ci insegni a usare
un particolare software di modellazione o disegno. In piena logica
“open”, la parola magica in questo caso è condivisione: delle proprie idee e anche dei
propri bisogni. O, se preferiamo i termini anglosassoni che popolano le
presentazioni sul tema Maker, le parole magiche possono essere crowdfunding,
fablab, cloud printing.

Il
crowdfunding è un modello
di finanziamento condiviso che si è sviluppato nello stesso periodo in cui il movimento Maker è esploso e il legame fra i due è diventato subito molto forte. L’idea di
fondo è semplice:
invece di cercare un singolo finanziatore per un progetto, l’ideatore
lo presenta al pubblico online con abbondanza di dettagli (descrizioni, schemi,
fotografie, video…) e, a fronte di una somma-obiettivo
prefissata per far partire il progetto, chiede a tutti di investire una quota
che può essere
anche minima. Di solito sono previsti degli scaglioni di investimento: chi
partecipa con pochi euro ha un ringraziamento simbolico, man mano che la quota
sale si ottiene in cambio qualcosa di tangibile, come ad esempio – se si tratta del finanziamento per un nuovo
prodotto – i primi
esemplari a un prezzo molto scontato rispetto a quello finale. Se la
somma-obiettivo viene raggiunta nel tempo previsto dal sistema il denaro viene
effettivamente trasferito all’ideatore, altrimenti le
sovvenzioni promesse non vengono addebitate a chi ha partecipato. Basta fare
una breve visita a Kickstarter, il sito di crowdfunding più famoso, per vedere come questo approccio sia
usato per progetti di qualsiasi genere, dallo sviluppo di nuovi prodotti al
lancio di periodici a fumetti passando per gli spettacoli live (che tra l’altro
erano proprio il focus iniziale di Kickstarter). Per chi ha ideato un nuovo
oggetto fare crowdfunding significa in sostanza avviare la prima produzione
solo dopo avere già il denaro
necessario e una verifica diretta che la sua idea ha convinto qualcuno, oltre
spesso alla sicurezza che i primi esemplari sono in buona parte, se non del
tutto, già venduti.
Senza contare che, se il progetto è davvero sensato e convincente, i siti di crowdfunding offrono una
visibilità notevole
per la propria idea.

I fablab
(da fabrication laboratory) sono, come definizione generica, spazi attrezzati
che offrono al pubblico strumenti e servizi per la digital fabrication. Questo
concetto generale è concretizzato
in tantissimi modi diversi: ci sono fablab all’interno
delle università come in
spazi pubblici ceduti ad hoc dalle amministrazioni locali, ma anche dentro caffè in stile Starbucks, in spazi ex industriali
recuperati al co-working o nei centri sociali. L’importante
è che una persona possa portarvi la sua idea
digitale e utilizzare gli strumenti di produzione che il fablab mette in
comune, dalle stampanti 3D ai plotter laser che tagliano lastre di vari
materiali (plastica, cartone, metallo…) seguendo un disegno
vettoriale, ai torni a controllo numerico pilotati da computer. Accanto agli
strumenti di produzione di solito ci sono anche servizi di formazione tecnica
con cui imparare a usarli, come anche ad approfondire l’utilizzo
dei vari software necessari alla progettazione.

E se i
servizi di un fablab non ci bastano, ecco il cloud printing. Le aziende che
offrono servizi di stampa 3D professionale alle imprese hanno acquistato
stampanti da decine di migliaia di euro e questo investimento deve essere
ammortizzato prima possibile, anche perché in questo campo la tecnologia evolve velocemente. Per questo è nata l’idea di offrire questa
capacità produttiva
anche ai privati, per la produzione on demand di piccoli lotti o anche di
oggetti singoli. Il principio è grosso modo lo stesso dei servizi di stampa fotografica online:
invio via Internet il mio (o i miei) file e dopo qualche tempo riceverò a casa il risultato, in questo caso non
fotografie ma oggetti fisici. Per chi usa il servizio il vantaggio sta nel
poter stampare con macchine che altrimenti non si sarebbero mai potute
acquistare o noleggiare e che danno una qualità molto superiore alle stampanti desktop. Se
interpretiamo la parte “printing” del cloud printing in senso molto
lato possiamo farvi rientrare i servizi offerti da altre aziende che mettono a
disposizione non stampanti 3D ma plotter laser, plotter per il taglio ad acqua,
torni e via dicendo. In sostanza, questi servizi eliminano la necessità di avere accesso diretto alle macchine di
produzione, con dei costi che vanno certamente considerati ma che lasciano a
noi solo il compito davvero personale: metterci le nostre idee e la nostra
fantasia.

Dalle
tecnologie all’approccio

La stampa
3D, l’open hardware e lo sviluppo di servizi e
ambienti che mettono a fattor comune competenze, risorse economiche e strumenti
tecnologici sono tre processi che si sono sviluppati in maniera indipendente.
Poi, negli ultimi anni, la loro crescita è stata sinergica e proprio la combinazione di queste tre evoluzioni
ha portato a uno scenario di fondo senza il quale il movimento Maker
difficilmente avrebbe potuto concretizzarsi e andare oltre il settore degli
appassionati più tecnici.

Come sarà ormai chiaro, la chiave di tutto è che oggi chiunque può accedere a componenti tecnologici e processi
di manufacturing che prima erano patrimonio solo delle imprese propriamente
dette, quindi chiunque può concretizzare una sua idea, un suo progetto, senza dover trovare le
risorse economiche per mettere in piedi una catena di produzione classica. Il
punto discriminante sono ovviamente i volumi di produzione: un Maker non è orientato alla produzione di massa ma lavora
per lotti molto meno numerosi o addirittura per pezzi unici, magari
personalizzati di volta in volta in base alle specifiche esigenze del singolo
cliente. Questo è un punto
di differenziazione importante, tanto che si è parla del passaggio dalla produzione di massa
alla personalizzazione di massa (mass customization invece di mass production).
Con le nuove tecnologie, infatti, il costo produttivo della complessità e della personalizzazione si annulla: il costo
per la stampa di un cubo liscio o di uno ricoperto di decorazioni barocche è lo stesso, a parità di dimensioni, come anche non c’è differenza tra tagliare al laser una lastra di
plastica per creare una forma complessa invece di un cerchio omogeneo privo di
dettagli. Certo bisogna intervenire sul file di partenza, ma è nulla in confronto alla produzione industriale
classica, dove cambiare la forma di un oggetto in corsa è materialmente impossibile e comunque
antieconomico.

Ma basta
questo accesso libero alle tecnologie produttive – e nemmeno tutte, chiaramente – per parlare di una nuova rivoluzione
industriale? Basta a generare impatti economici diversi quelli del mercato, che
esiste da anni, di chi ha l’hobby di creare oggetti con
sistemi meno tecnologici e poi li vende online? La risposta è sì, quello che la rende di
primo acchito sorprendente è che parlare di nuova rivoluzione industriale pone un paragone
implicito con la transizione che ha portato alla produzione di massa nelle
fabbriche di stampo fordista. Quella è stata una rivoluzione veloce che ha interessato immediatamente
milioni di persone, tra chi nelle fabbriche ci lavorava e chi ne acquistava i
nuovi prodotti a prezzo sempre più basso. Questa promette di essere una rivoluzione lenta, che viene
dal basso, legata all’iniziativa dei singoli. E in
questo si adatta bene all’Italia, che ha perso parecchi
treni tecnologici a livello di sistema-Paese ma che è ricco di iniziative individuali e soprattutto
caratterizzato da una cultura del “saper fare” che viene dalla nostra
secolare tradizione artigianale.


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