Creare un’impresa con il venture capital

Le possibilità di finanziamento per le giovani imprese ad alto contenuto di tecnologia


di Andrea Caddeo, Coordinatore Commissione Venture Capital di Aifi (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital)



Ogni impresa ha un suo ciclo di vita: nasce da un’idea imprenditoriale, si sviluppa, cresce, raggiunge la maturità e intraprende la strada del declino o si rinnova per rilanciare il proprio business.


Sono numerosi, specialmente nel nostro Paese, i casi di imprese pluricentenarie che hanno seguito questo ciclo, tramandate di padre in figlio per generazioni, e che riescono a competere a livello internazionale con altre imprese di carattere globale attraverso un rinnovamento costante dei propri prodotti.


A fianco di queste imprese più tradizionali, recentemente, si è assistito allo sviluppo di una nuova imprenditorialità, fatta di giovani ricercatori e menti brillanti, che trasformano le proprie idee in business ad alta capacità di crescita.


Per questi attori, lo start up d’impresa, ossia l’avvio della nuova attività imprenditoriale, rimane ancora un percorso molto difficile e rischioso, per vari motivi. Da una parte, ci si trova davanti ad un rischio scientifico, ossia il rischio legato allo sviluppo del prodotto o della tecnologia, che spesso richiede ingenti somme di capitali per lo sviluppo. Dall’altra, esiste il cosiddetto rischio di mercato, ossia l’incertezza legata alla capacità del proprio prodotto o servizio di aggredire il mercato di riferimento e conquistare nuovi clienti o utenti a tassi di crescita sostenuti.


Ma il vero problema di chi, per la prima volta, si trova davanti a questa scelta di vita professionale assai rischiosa e ricca di sfide, è quello della raccolta dei capitali necessari per l’avvio dell’impresa. È qui che il neo imprenditore trova le maggiori difficoltà. Negli Stati Uniti questa situazione di carenza di capitali viene definita la “dead valley”, la valle della morte. Questa espressione figurata fa riferimento al periodo nel quale l’impresa si trova nella fase iniziale del suo ciclo di vita: dietro all’imprenditore c’è un passato di ricerca, all’orizzonte prospettive di crescita auspicalmente elevate e nell’immediato un periodo necessario per lo start up che, per essere superato, necessita di capitali di rischio da investire.


Data l’elevata rischiosità del progetto, gli imprenditori si trovano in una posizione svantaggiata per l’accesso al credito da parte degli intermediari finanziari tradizionali: le banche, infatti, per loro natura avverse al rischio, difficilmente si impegnano a finanziare progetti capaci di offrire basse garanzie reali.


Filiera dell’early stage
Nonostante ciò, anche in Italia, è presente un ricco movimento di soggetti che, a vario titolo e con differenti modalità di intervento, possono aiutare le giovani imprese a superare questa prima fase.


In primo luogo, troviamo le stesse università, dalla cui attività di ricerca è spesso nata l’idea imprenditoriale, le quali offrono un prezioso supporto all’imprenditore nella definizione del business plan e delle strategie, nella definizione di un adeguato programma di protezione della proprietà intellettuale e un supporto, anche fisico, alle attività dell’imprenditore, grazie alla fornitura di spazi ove ubicare le attività. Alcune università, inoltre, negli ultimi anni hanno istituito degli incubatori d’impresa per fornire professionalmente tale supporto alle imprese.


Per progetti più strutturati, lungo tutto il territorio nazionale, esistono poi i parchi scientifici e tecnologici che, al loro interno, ospitano le neonate imprese e, in alcuni casi, offrono anche dei finanziamenti a condizioni particolarmente vantaggiose per sostenere i piani di sviluppo delle imprese più promettenti.


Si tratta, ovviamente, di investimenti di ammontare estremamente ridotto, ma capaci comunque di permettere all’imprenditore di focalizzare per un breve periodo tutta la propria attenzione nello sviluppo del prodotto o servizio e di abbattere in tal modo il rischio scientifico o tecnologico.


Al neo-imprenditore è sempre richiesto un commitment personale all’interno dell’impresa, tanto che i primi veri investitori informali nel capitale di rischio sono in primo luogo riconducibili a quelle che negli Stati Uniti vengono chiamate le 3F (family, friends, fools) ossia i familiari, gli amici e le persone particolarmente propense al rischio, che rappresentano i primi effettivi finanziatori e sostenitori dell’impresa.


Una volta che il prodotto è definito, ed è stato delineato un business plan chiaro e completo, questi neo-imprenditori in cerca di capitale possono rivolgersi ad altri soggetti, più a valle lungo la filiera dell’early stage, ossia agli investitori informali e istituzionali nel capitale di rischio, ovvero, rispettivamente i business angels e gli operatori di venture capital.


Tale attività di investimento, chiamata anche di early stage, può essere scomposta in due differenti momenti tra loro consecutivi: si distingue, quindi, tra il seed financing che consiste nell’investimento nella primissima fase di sperimentazione dell’idea d’impresa, quando è ancora da dimostrare la validità tecnica del prodotto o del servizio e l’early stage financing, ossia l’investimento finalizzato all’avvio di un’attività imprenditoriale, quando ancora non si conosce la validità commerciale del prodotto o del servizio, ma esiste già almeno un prototipo.


Il mercato italiano
Seppur relativamente indietro rispetto ai maggiori mercati europei, il mercato italiano del venture capital si dimostra il segmento più dinamico nel contesto nazionale degli investimenti in capitale di rischio degli ultimi anni.


Secondo Aifi, che in collaborazione con PricewaterhouseCoopers raccoglie semestralmente i dati sull’attività di investimento, raccolta e disinvestimento effettuata in Italia dagli operatori, nel 2008 gli investimenti sono stati 88 (15 di seed capital e 73 di early stage) per un ammontare complessivamente investito pari a 115 milioni di euro, in crescita rispetto all’anno precedente, quando l’ammontare investito si è fermato a 66 milioni di euro. Se a queste cifre si aggiungono anche quelle raccolte da Iban (l’Associazione italiana degli investitori informali nel capitale di rischio), che attesta a 120 il numero di operazioni effettuate dai propri associati, per un ammontare complessivamente investito pari a circa 31 milioni di euro, è possibile comprendere meglio le dimensioni del mercato domestico che comincia ad avere una sua rilevanza.


Se comparato agli altri mercati europei, il mercato Italiano mostra la sua giovinezza e le sue dimensioni ancora modeste. A fronte dei 115 milioni di euro investiti in Italia in questo comparto, nello stesso anno sono stati investiti 729 milioni di euro in Francia, 792 milioni in Gran Bretagna e 465 milioni in Germania.


Nei mercati più evoluti, così come nel mercato italiano, gli investimenti si concentrano principalmente nei settori dell’information technology, del medicale, dei media e delle telecomunicazioni e delle biotecnologie. Non mancano, tuttavia, investimenti in settori in forte crescita e dal grande potenziale, quali, ad esempio, quelli dell’energia e utilities e dell’elettronica.


A livello geografico, la maggioranza degli investimenti vengono effettuati nel nord Italia (principalmente in Lombardia e Piemonte), seguiti a breve distanza dal centro, mentre rimane ancora indietro il sud, dove, in generale, l’attività di investimento nel capitale di rischio è meno presente.


Da quanto sostenuto dagli operatori, le iniziative imprenditoriali nel nostro Paese non mancano, tanto che, in media, ogni operatore annualmente riceve dalle 100 alle 200 proposte di investimento. Non tutte, però, si concludono con l’investimento: ogni 100 progetti solamente 1-2 arrivano alla chiusura del deal. Ciò è dovuto non tanto alla qualità del progetto, che in molti casi è altissima, ma anche alle caratteristiche del team dei proponenti e alle difficoltà di comprendere le logiche con cui opera un investitore istituzionale nel capitale di rischio.


Così, l’azienda tipica, derivante dalle medie degli investimenti fatti nel 2008, risulta essere composta da 3 dipendenti, con un fatturato medio di 0,6 milioni di euro ed operante prevalentemente nei settori del medicale, dell’energia e utilities e del media e entertainment. L’ammontare medio investito nel 2008 è cresciuto a 1,3 milioni di euro, mentre nel 2007 si era fermato a 0,7 miliardi di euro, a dimostrazione della maggiore strutturazione dell’impresa e delle maggiori potenzialità del progetto al momento dell’investimento.


In un mercato ancora in evoluzione, i fondi esclusivamente focalizzati sugli investimenti di venture capital sono ancora poco numerosi, seppur in crescita negli ultimi anni: sempre secondo Aifi (l’Associazione italiana del private equity e venture capital) nel 2008 erano 12, a cui se ne aggiungeranno presto anche altri a seguito dell’avvio del Fondo High Tech per il Sud da parte del Dipartimento dell’Innovazione Tecnologica del Ministero dello Sviluppo Economico che, attraverso una gara, ha assegnato a quattro operatori nuove risorse per sostenere gli investimenti di venture capital nel sud Italia.


Contributo del venture capitalist
L’investimento di venture capital non si conclude nel semplice apporto di capitale di rischio nell’impresa, ma prevede anche un supporto, da parte dell’operatore, costante per tutta la durata dell’investimento, soprattutto per quanto attiene la gestione straordinaria. Uno studio svolto nel 2008 da Banca d’Italia e Aifi ha messo in luce come il contributo del fondo di venture capital sia stato più incisivo nell’attività di consulenza su aspetti finanziari e nelle strategie, sul miglioramento del rapporto con altri finanziatori e sull’internazionalizzazione delle imprese, mentre l’operatore è stato meno invasivo in proporzione per quel che riguarda la gestione ordinaria degli aspetti tecnico/operativi.


Questo affiancamento si concretizza, spesso, in tassi di crescita dei principali parametri aziendali superiori alla media. Da una ricerca sull’impatto economico, eseguita da PricewaterhouseCoopers in collaborazione con Aifi, emerge che le imprese venture backed crescono 3/4 volte più velocemente sia per quanto riguarda i ricavi, l’Ebitda e l’occupazione rispetto al campione delle imprese ad esse comparabili.



Avvio di un’impresa con il venture capital?
Da quanto detto, quindi, avviare un’impresa con il venture capital in Italia è possibile, anche se, come è accennato, sono necessarie delle pre-condizioni per consentire l’investimento. Non tutte le imprese, infatti, sono adatte ad essere oggetto di tale investimento ma, per i progetti di ricerca ad elevato potenziale di crescita esiste una filiera di attori che può accompagnarli lungo la loro storia evolutiva e prepararli all’ingresso di un investitore istituzionale nella propria compagine sociale.


I segnali di crescita del nostro mercato sono evidenti: il numero e la qualità delle iniziative presenti sul territorio nazionale a supporto dello start up d’impresa sono in costante aumento, e rappresentano tutte un importante strumento per sostenere la cultura dell’avvio d’impresa nel nostro Paese: si pensi, ad esempio, al Premio Nazionale per l’Innovazione, che ogni anno premia la migliore start up universitaria, o i vari programmi di accompagnamento all’estero per le giovani imprese innovative.


Sul fronte normativo, già la manovra finanziaria estiva del 2008 (Dl 112/08 convertito con legge n. 133 del 6 agosto 2008) ha introdotto alcune importanti novità, favorendo l’investimento dei business angel in nuove società attraverso la detassazione dei capital gains ottenuti dal disinvestimento di un precedente investimento qualora questi capitali vengano reinvestiti in imprese simili.


Di rilevante importanza, inoltre, è stato l’avvio, nel 2008, del Fondo High Tech per il Sud che ha messo a disposizione 86 milioni di euro da investire nel sud Italia in imprese digitali. Tale schema, che prevede il coinvestimento sia di risorse pubbliche che private, vedrà attivi nei prossimi anni quattro operatori, che potrebbero contribuire a ridurre il gap che esiste tra il nord e il sud dell’Italia, oltre a promuovere la ricerca e l’innovazione nel meridione.


Si attende, infine, l’avvio del Fondo per la Finanza d’Impresa, istituito con la legge finanziaria per il 2007, che, seguendo lo schema del Fondo High Tech per il Sud, potrebbe stimolare gli investimenti innovativi su tutto il territorio nazionale attraverso la maggiore dotazione di risorse che è stata programmata dal Ministero dello Sviluppo Economico.


A confronto con altre tipologie di finanziamento tramite capitale di rischio, gli investimenti di early stage, inoltre, dovrebbero aver risentito meno anche della crisi. Da una recentissima indagine svolta da Aifi presso i propri associati focalizzati sull’attività di investimento in nuove imprese tecnologiche è emerso, infatti, che per nessun operatore è calato il flusso progetti oggetto di analisi. Al contrario, per il 42% degli operatori il numero di business plan valutati è aumentato e per il 58% il volume è rimasto costante.


Sono dati e segnali incoraggianti per il futuro, che testimoniano come in Italia esista un sistema innovativo che si sta sviluppando nel territorio ma che, allo stesso tempo, segnalano come sia ancora necessaria un’attività di sensibilizzazione e di maggior coinvolgimento di tutti gli attori che sostengono le imprese tecnologiche, per creare quella filiera capace di generare importanti storie di successo capaci di attirare l’attenzione e creare o successi economici capaci di invogliare più ricercatori ad intraprendere un percorso imprenditoriale, oltre che contribuire alla creazione di un track record di investimenti positivi per i fondi di venture capital.


(per maggiori approfondimenti vedi Finanziamenti e credito, Novecento Media)

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