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Come nasce l’illusione del 3D

Dal punto di vista concettuale, realizzare una ripresa stereoscopica è abbastanza semplice: non si deve far altro che riprendere la stessa scena da due punti leggermente diversi, posti a una distanza pari a quella esistente fra gli occhi, vale a dire circa 65 millimetri, la cosiddetta distanza interoculare- Le due immagini devono poi essere inviate separatamente agli occhi dell’osservatore utilizzando una delle tecniche che descriveremo fra poco, e sarà compito del cervello elaborare i segnali in modo da restituire la sensazione di profondità.
Proprio per la relativa semplicità di realizzazione, il cinema in 3D non è certo una novità degli ultimi anni: i primi lungometraggi stereoscopici risalgono addirittura agli anni Venti dello scorso secolo e negli anni Cinquanta ci fu un fiorire di produzioni, con oltre 60 film realizzati con questa tecnica. Dopo un periodo d’oblio, il cinema 3D ritornò alla ribalta verso la fine degli anni Settanta; solo nel passato recente si è però assistito a un fiorire di produzioni in stereoscopia 3D, reso possibile dall’adozione di tecnologie digitali per tutte le fasi della lavorazione che hanno ridotto sensibilmente
i costi di produzione.

Con le riprese realizzate in pellicola è infatti difficile ottenere un perfetto allineamento fra le due riprese: i meccanismi di trasporto delle cineprese provocano una leggera oscillazione verticale delle immagini, il trattamento di sviluppo e stampa può causare differenze nella resa cromatica, la struttura della grana è differente e in fase di proiezione si possono presentare gli stessi problemi che si hanno durante le riprese.
Se tutte queste imperfezioni non sono adeguatamente compensate, la percezione della tridimensionalità rischia di venir meno.

Con l’impiego delle tecnologie digitali gran parte di questi problemi possono essere risolti, anche se per il momento ci vuole ben di più di un personal computer per riuscire a elaborare agevolmente immagini con risoluzione di almeno 2K, vale a dire in formato 2.048 x 1.536 pixel, il minimo utilizzabile per le applicazioni di cinematografia digitale.

Riprese stereo
La soluzione più semplice per realizzare riprese stereoscopiche consiste nel montare le due telecamere fianco a fianco, facendo in modo che la distanza tra i centri ottici degli obiettivi sia pari alla distanza interoculare. Tutte le telecamere professionali sono dotate di un ingresso di genlock che permette di sincronizzarne perfettamente il funzionamento, facendo in modo che ogni singola immagine (frame) sia catturata nell’identico istante: in caso contrario, un soggetto in movimento sarebbe ripreso in posizioni diverse dalle due telecamere.

Gli obiettivi devono essere perfettamente identici e tutte le regolazioni – distanza di messa a fuoco, diaframma ed eventualmente lunghezza focale dello zoom – devono poter essere effettuate in perfetta sincronia, servendosi di opportuni servomeccanismi. L’unico ostacolo all’impiego di una simile soluzione è costituito dalle dimensioni fisiche degli obiettivi: il loro diametro esterno non può essere superiore alla distanza interoculare.

Per ovviare a questa limitazione, una possibile soluzione è quella di montare le due telecamere in posizione perpendicolare, una in orizzontale e l’altra in verticale, anteponendo al tutto uno specchio semiriflettente inclinato di 45 gradi che invia la luce proveniente dalla scena che si sta riprendendo ai due obiettivi. In questo modo la distanza fra i centri ottici può essere regolata senza problemi, e così pure la convergenza: come vedremo fra poco, per alcune applicazioni è necessario che gli obiettivi non siano perfettamente paralleli fra di loro.

Una soluzione alternativa, proposta recentemente da Sony, è quella di utilizzare un unico obiettivo accoppiato a uno sdoppiatore di immagini che invia la luce a due sensori distinti.

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