Il sensore CMOS Il termine CMOS (Complementary Metal-Oxide Semiconductor) si riferisce sia alla tecnica costruttiva usata per questi componenti (uno strato di semiconduttore depositato su uno strato di ossido metallico) sia alla particolare struttura d …
Il sensore CMOS
Il termine CMOS (Complementary Metal-Oxide Semiconductor) si riferisce sia
alla tecnica costruttiva usata per questi componenti (uno strato di semiconduttore
depositato su uno strato di ossido metallico) sia alla particolare struttura
di accoppiamento dei transistor che vi sono contenuti, accoppiati in maniera
complementare al fine di creare una sorta di altalena elettronica nei reciproci
stati che, in virtù del sistema di equilibrio, richiede pochissima energia
per essere mantenuta o modificata.
I semiconduttori CMOS sono gli stessi impiegati nei microchip dei moderni
computer di conseguenza sono anche più facili ed economici da fabbricare.
Anche nel CMOS la struttura è una matrice x-y, ma all’interno
di ogni cella fotosensibile si trovano, con il fotodiodo, un convertitore carica/voltaggio,
un amplificatore di segnale e un dispositivo power-save che attiva/disattiva
la cella, rendendo possibile la lettura tramite coordinate x-y delle sole celle
attive, cosa impossibile per un CCD.
Ciò consente di risparmiare cicli, arrivando addirittura a non alimentare
le celle non colpite dalla luce e permettendo un risparmio energetico notevole.
D’altro canto un così alto numero di dispositivi aumenta il rumore
di fondo; inoltre la distanza fra un fotodiodo e l’altro, maggiore rispetto
a quella dei CCD, porta a una perdita di informazione.
Recentemente la tecnologia CMOS ha conosciuto una grande evoluzione, portando
all’abbassamento del rumore di fondo e alla diminuzione dello spazio tra
i fotodiodi. In tal modo è possibile produrre immagini di alta qualità,
ma con una spesa elevata, tanto che i sensori CMOS di fascia alta vengono utilizzati
quasi esclusivamente sulle digicamere di fascia professionale.
È bene notare che sia il sensore CCD, sia il sensore CMOS, non sono
direttamente sensibili ai colori: ogni fotodiodo è sensibile solamente
alla luce, di cui registra l’intensità, restituendone la copia
in grigio.
Per ovviare a tale inconveniente viene applicato ad ogni singolo fotodiodo
del sensore un filtro di colore diverso, rosso (R), verde (G) o blu (B), grazie
al quale è possibile registrare direttamente un canale colore, mentre
gli altri due vengono sintetizzati a partire dalle informazioni registrate dai
fotodiodi limitrofi. Si tratta di un metodo simile, ma invertito, rispetto alla
generazione dei colori sugli schermi LCD.
Oltre il CCD e il CMOS
Altre tipologie di sensore sono state sviluppate a partire dal CCD e dal CMOS.
Il SuperCCD, sviluppato da Fujifilm, si differenzia dal normale
CCD per la forma dei fotodiodi, non quadrati bensì ottagonali, disposti
ad alveare anziché a matrice. Tale disposizione dovrebbe coprire al meglio
l’area del fotogramma.
Ne esistono due versioni: la HR che, grazie alla diversa disposizione dei fotodiodi
e a un particolare sistema di lettura dei dati, virtualmente raddoppia la quantità
di pixel, fornendo immagini da 6 megapixel con sensori che ne possiedono soltanto
3; la SR, i cui fotodiodi sono composti da due elementi, uno influisce sulla
sensibilità, l’altro specifico per estendere la gamma dinamica,
cioè la resa delle differenze fra ombre e luci.
Il Foveon, prodotto dall’omonima ditta californiana
e utilizzato sulle fotocamere Sigma, è uno sviluppo del CMOS, ma presenta
una struttura a sandwich, con la sovrapposizione di tre sensori: uno per il
rosso, uno per il verde e uno per il blu, allo scopo di offrire una resa cromatica
più realistica grazie all’assenza dei filtri colorati. Purtroppo
sensori di questo tipo sono troppo piccoli per le applicazioni professionali.
Un componente che è in parte comune alle fotocamere digitali e analogiche
è l’elettronica: dalla metà degli anni ’80 si è
cominciato ad equipaggiare le fotocamere con microprocessori e algoritmi per
gestire tutti gli automatismi di cui esse dispongono.
Questo bagaglio tecnologico è stato acquisito ed espanso dalle digicamere
digitali e grazie all’elettronica il fotografo non effettua solo le regolazioni
di carattere prettamente fotografico, quali l’esposizione e la messa a
fuoco, ma può agire sulla qualità dell’immagine come un
tempo era possibile fare solo in post-produzione già durante le fasi
di ripresa.
Ultimo importante elemento caratterizzante della digicamera è lo schermo
LCD: originariamente pensato per la sola visualizzazione delle fotografie già
scattate, è rapidamente divenuto il sistema prediletto dai fotoamatori
per l’inquadratura.
Dall’inquadratura all’immagine sul
display
In fase di ripresa, una volta scelta l’inquadratura, una leggera pressione
sul pulsante di scatto attiva l’autofocus e l’esposimetro, affinché
le regolazioni di messa a fuoco ed esposizione siano tali da ottenere un’immagine
corretta.
La pressione a fondo del pulsante di scatto apre l’otturatore, cosicché
la luce possa “impressionare” il sensore.
Appena prima dell’apertura dell’otturatore avviene un’importante
misurazione: il bilanciamento del bianco, sorta di rilevamento e campionamento
delle aree chiare dell’immagine, necessario per eliminare le dominanti
cromatiche date dalle fonti di illuminazione presenti sulla scena.
Durante lo scatto, inondato dalla luce, il sensore traduce in segnale elettrico
analogico l’informazione luminosa che gli perviene attraverso l’obbiettivo;
subito dopo un convertitore A/D lo converte in informazione digitale.
Poiché la mole di dati ricavata ad ogni scatto genererebbe file troppo
ingombranti, è prassi utilizzare un algoritmo di compressione che provveda
a ridurre le dimensioni dell’immagine: in questo modo è possibile
immagazzinare più fotografie a parità di capacità della
memoria a disposizione.
L’algoritmo più utilizzato per questo scopo è il JPEG,
particolarmente indicato per le immagini fotografiche e pittoriche. Molte digicamere,
soprattutto quelle di fascia professionale, permettono di salvare i file in
formato nativo, detto RAW (dall’inglese rough, rozzo), utile ai fini del
fotoritocco e dell’elaborazione in campo professionale, ma decisamente
poco pratico per il dilettante.
Le immagini ottenute possono essere salvate sulla memoria interna della fotocamera
digitale o su una scheda e trasmesse al personal computer per le successive
fasi di elaborazione, stampa e archiviazione tramite una connessione via cavo
USB o, su alcune macchine professionali, Firewire, oppure togliendo la scheda
di memoria dalla digicamera e inserendola in un lettore collegato al computer.