Codice libero. Il movimento va tradotto in business organizzato

Nel nostro Paese l’open source è utilizzato in modo disaggregato. Chi lo fa, punta al risparmio, anche se spesso non mette a fuoco il vero problema, che non è il sistema operativo, ma l’applicazione. Tant’è che un utente su due di Os/390 ha in azienda almeno un software “libero”.

 


Giubilazione del sistema operativo tradizionale? No, dell’applicazione. Quello del sistema operativo libero è un falso problema. Ciò che conta veramente è il software di produzione, non tanto quello di piattaforma. Microsoft, che è al centro del "tornado", è la prima a saperlo.


Nell’arte della guerra, Bill Gates pare aver superato Von Clausevitz: l’apertura del suo sistema operativo lo fa soffrire, conscio che non è la preda vera. Piuttosto, lo sarebbe Office. Dunque parlare attorno ai codici di Windows fa solo il suo gioco: spostare e nascondere il vero bersaglio. Il sorgente di Windows è diventato l’araba fenice. Tutti lo vogliono, anche chi (e sono i più, dice Microsoft) non saprebbe che farci. Al di là delle difficoltà intrinseche dello scrutare fra i sorgenti dell’Os più diffuso al mondo, la ricerca del segreto che si nasconde negli incunaboli di Redmond rischia davvero di diventare improduttiva. Il paradigma che Linux e i suoi seguaci hanno messo sul piatto è una concreta alternativa a Windows, proprio perché si contrappone su un piano di mercato e non solo tecnologico. Con la benedizione di Ibm (che ha una propria Public License che definisce le condizioni che lo sviluppatore deve rispettare), le varie Red Hat, Sco e SuSe lavorano per costruire e far pagare servizi anziché royalty ai propri utenti. Qualcosa, insomma, gli utenti dell’open source, inteso in senso generico, devono spendere. Spesso, come le nostre indagini hanno evidenziato, tanto come facevano prima. Il castello che si basa sull’equazione open source uguale risparmio, parrebbe, dunque, non stare in piedi.


A conferma di ciò c’è una survey che Computer Associates ha condotto a uso interno per capire come la propria utenza intende Linux e l’open source. Su un campione di un centinaio di utenti (per lo più dei settori finance, ma anche Pa, industria e servizi) è emerso che oltre la metà utilizza Linux, un terzo di loro lo fa su piattaforma distribuita, un sesto su mainframe e un decimo in entrambi gli ambienti. Non solo, ma nel mondo degli utenti di Os/390 stanno girando applicazioni open source infrastrutturali come Apache, Php, Tomcat, Squid, PostGres, Qmail, di business continuity come Amanda, Snort, Open Ldap, Open Ssl, e di produttività desktop, come OpenOffice e StarOffice. E ancora, il motivo per cui guardano al fronte "open" non è solo il Tco, ma anche la server consolidation, cioè affidabilità e performance applicativa.


L’applicazione, quindi, è il vero cuore del tema open source, che per decollare ha bisogno di trovare organicità. Come quella, forse, che sta cercando di censire l’Assoli (Associazione per il Software Libero Italiana). O magari più come quella che patrocina Yacme, con l’Associazione di Imprese del Software Libero. La società bolognese, partner di Ibm, Red Hat e SuSe, è un buon esempio di come oggi si possa fare business attorno all’open source. Come testimonia il caso dell’implementazione presso l’associazione di categoria di esercenti, artigiani e piccole imprese, di Modena e Reggio Emilia, la Lapam-Federimpresa, che ruota su 100 server Linux, sui quali la software house Metodo ha migrato i gestionali legacy e Yacme ha formato i 700 dipendenti al lavoro con OpenOffice. Insomma, con l’open source si può lavorare.

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