
Non solo soldi ma anche competenze e e relazioni
L’azienda lungo la sua vita attraversa diverse fasi, dalla sua costituzione alla maturità, e per ciascuna di esse necessita di un apporto di risorse differenti con un diverso grado di difficoltà nel reperirle. In particolare durante lo start-up, la società si affaccia al mercato con un cospicuo bisogno di capitali e una scarso background oltre che pochi beni da porre a garanzia.
Una delle migliori opportunità per reperire fondi è quella di far entrare nel capitale un investitore istituzionale o venture capitalist che porti, oltre alle risorse monetarie, anche adeguate competenze e relazioni.
Neil Cross, senior executive di 3i fornisce la seguente definizione del venture capital: “la provvista di capitale di rischio generalmente nella forma di partecipazione azionaria a società ad alto potenziale di crescita. Inoltre la società di venture capital fornisce anche valore aggiunto nella forma di consulenza direzionale e contributo all’intero programma strategico.
I relativamente alti rischi e costi di venture capital sono compensati dalla possibilità di alti guadagni rappresentati in genere da capital gains nel medio termine”.
La seguente definizione è apparsa nel The Bank of England Quarterly Bulletin del 1984:
“un’attività attraverso la quale gli investitori supportano il talento imprenditoriale con strumenti finanziari e aziendali al fine di aprire al mercato opportunità e ottenere capital gains nel lungo periodo”.
Le caratteristiche
Entrambe le definizioni mettono in risalto le peculiarità del venture capital:
- provvista di capitale di rischio;
- gestione in prima linea (hands on management);
- profitti superiori al finanziamento per ripagare il rischio.
La sostanziale differenza fra la provvista di capitale di rischio e quella di debito è che quest’ultimo deve essere ripagato a una data certa, frutta interesse ed è passivo rispetto alla sua gestione. Invece il capitale di ventura dà gli stessi diritti e privilegi dell’azionista, ha una posizione attiva rispetto alla sua gestione, ma non è connotato da remunerazione e rimborso certi. A seconda del settore nel quale la società opera è previsto un ingresso di maggiore o minore entità, che oscilla tra il 20 e il 49%.
Quanto alla gestione in prima linea, proprio per l’aleatorietà del rientro, l’investitore dedica ad ogni transazione anche tempo e risorse umane al fine di monitorare che l’operazione vada a buon fine e frutti i risultati attesi. Tramite l’hands on management infatti l’investitore può conoscere più a fondo l’azienda e la sua gestione quotidiana e, grazie alla propria esperienza, anticipare le difficoltà e porre in essere le soluzioni per evitarle, invece di leggerle nei rapporti trimestrali.
Inoltre essendo esperto in finanza e investimenti può portare competenza all’interno dell’impresa. Così come grazie ai contatti con il mondo della finanza può trovare più facilmente risorse nel mercato finanziario e in particolare avere accesso più agevole alla borsa.
Questa peculiarità è un’ulteriore opportunità per la start-up, al pari della provvista di capitale, perché soprattutto nelle fasi iniziali di attività è difficile poter contare su uno staff di esperti e avere un network di relazioni idonee a poter trovare le migliori opportunità di finanziamento.
Il know-how dell’investitore è prezioso e consente alla start-up di fare un salto di qualità notevole in termini di efficacia ed efficienza per quanto concerne la gestione interna. Le competenze messe in gioco, infatti, consentiranno di evitare inutili sprechi nella gestione finanziaria e nel conseguimento dei cash flow, ottimizzando il rapporto costi-benefici.
Ulteriori vantaggi non da poco si avranno nei rapporti coi finanziatori, che, grazie alla rete di relazioni del capitalist, saranno più snelli e riusciranno a spuntare condizioni maggiormente favorevoli rispetto ai competitors.
In merito al maggior rendimento, realizzato attraverso il capital gain, gli investitori sono particolarmente selettivi e per remunerare adeguatamente le risorse impiegate, sia monetarie che umane, cercano investimenti con un ritorno almeno del 40%.
Le risorse impiegate in questa attività sono definite anche “pazienti” perché l’iniziale investimento in ricerca e sviluppo e il successivo acquisto dei fattori produttivi viene remunerato nel medio lungo periodo attraverso la vendita.
Primo livello: il seed capital. In una definizione delle fasi del ciclo di vita lo start-up si inserisce come seconda tappa subito dopo il seed e pertanto il rientro dall’investimento è abbastanza lungo e particolarmente aleatorio.
Il seed capital è definito dall’Evca (European Venture Capitalist Association) come: “il finanziamento dello sviluppo iniziale di un prodotto o il procacciamento di capitale a un imprenditore per testare la fattibilità di un progetto e procedere verso lo start-up”.
Di fatto in questo stadio abbiamo solo l’idea, il seme dal quale germoglierà il progetto. Per quanto riguarda le caratteristiche sottolineiamo:
- assenza di un prodotto pronto per il mercato e di una struttura dirigenziale completa;
- presenza di un prodotto o di un processo ancora in fase di ricerca e sviluppo. In questa fase mancano il patrimonio di base per accedere al mercato del debito e le attività sono strettamente dipendenti dalle risorse personali dell’imprenditore.
Il capitale è veramente esiguo e pertanto il venture capitalist che decide di impegnarsi in questa fase deve fornire molte risorse monetarie e soprattutto umane, visto che manca lo staff dirigenziale.
Il tempo di rientro richiesto è molto lungo e addirittura non valutabile per alcuni settori. Occorrono grandi abilità di project management e ci si deve affidare completamente all’abilità tecnica dell’imprenditore.
È raro che un investitore istituzionale decida di supportare iniziative a questo livello di sviluppo ma attenderà la successiva fase di start-up.
Secondo livello: lo start-up capital. Questo è il secondo livello del ciclo e il rischio è quello connesso alla trasformazione da idea a prodotto.
Per l’Evca lo start-up capital è: “il capitale necessario a finanziare lo sviluppo del prodotto, un inizio di marketing e la realizzazione delle fabbriche di produzione”.
In questa fase comincia quindi una strutturazione e si concretizzano almeno le linee essenziali dell’idea.
L’idea diventa progetto.
Le tipiche caratteristiche sono:
- la strutturazione in una forma giuridica societaria;
- la nomina di parte del management;
- lo sviluppo del business plan e del prototipo del prodotto o di tutta l’idea sviluppata nel seed;
- assenza di contabilità.
Quest’ultimo aspetto rende lo start-up ancora piuttosto rischioso per il fatto che manca un pregresso storico, che funga da base da interpolare per fare proiezioni.
L’orizzonte temporale dell’investimento varia dai 6 agli 8 anni, a seconda del settore e di quanto è avanzato il progetto rispetto al precedente seed. A questo stadio è sempre fondamentale il contenuto dell’idea di base, ma acquisiscono maggiore rilevanza il team che lo realizzerà e le modalità di approccio ai mercati di sbocco e di approvvigionamento.
La scelta di investire in questa fase viene fatta principalmente sulla base della cultura organizzativa dei proponenti, vale a dire su quel bagaglio di conoscenze e di esperienze a disposizione della società target, che la mettono in grado di affrontare i punti di debolezza e le minacce esterne e che sono considerati dal venture capitalist idonei per lo sviluppo del progetto imprenditoriale.
La due diligence più importante che viene effettuata nella start-up indaga proprio lo staff manageriale e la sua organizzazione:
- il curriculum dei manager;
- eventuali loro collaborazioni in passato;
- il livello di centralizzazione e di suddivisione dei compiti a seconda delle specifiche competenze;
- il livello di comunicazione interna e la capacità di prendere decisioni tempestive;
- la flessibilità e la capacità di reazione ai feedback;
- il sistema di controlli interni (risk management, codice etico, varie procedure di controllo interno).
Senza dubbio l’analisi di sensitività in questa fase riveste un ruolo centrale, in quanto in assenza di dati storici, è molto rilevante la fiducia nel management sia in quanto team di persone capaci di realizzare il business sia in quanto persone estremamente motivate e convinte del suo valore.
Questo tipo di feeling però non è ovviamente sufficiente per mettere l’investitore in condizione di decidere se partecipare al rischio oppure no, ma è indispensabile anche l’analisi, secondo criteri di valutazione diretti e indiretti, del progetto in sé e per sé e a supporto di tale decisione viene redatto il business plan.
Il business plan
Si tratta un insieme di documenti analitici e descrittivi che servono ad illustrare l’idea imprenditoriale e il suo sviluppo. La sua redazione riveste particolare importanza per l’imprenditore per due importanti motivi:
- ai fini dello sviluppo della start-up;
- per il reperimento di capitale di rischio.
Quanto al primo aspetto, la redazione dei vari rapporti obbliga la società a rispondere a determinati quesiti, a porsi certe problematiche e a trovare adeguate soluzioni o a riflettere con maggiore attenzione ad alcune parti del processo produttivo, commerciale e finanziario che magari aveva trascurato. La sua utilità si esplica quindi nel dare la giusta percezione della complessità del progetto e quindi reperire e coordinare efficientemente ed efficacemente le risorse necessarie.
In fieri, diventa una sorta di bussola e di linea guida da seguire e da correggere sapientemente nel caso di sviluppi imprevisti, per non perdere di vista l’obiettivo iniziale.
Quanto alla seconda motivazione, soprattutto in questa fase, non essendovi un pregresso storico che possa aiutare l’investitore nella sua scelta, oltre alla sua due diligence il business plan sarà l’unico prezioso strumento sul quale fondare la propria decisione, pertanto è estremamente importante redigerlo con la massima accuratezza.
Ciò non vuol dire però enfatizzare gli aspetti positivi e nascondere quelli negativi, che un operatore esperto svelerà subito, ma anzi mettere in risalto i punti di forza e di debolezza (che riguardano l’azienda al suo interno) nonché le opportunità e le minacce (che derivano dal rapporto con l’esterno).
Solo così facendo si mostrerà innanzitutto la consapevolezza e la conoscenza di tutte le sfaccettature del progetto e la capacità dell’imprenditore di farvi fronte (nel caso di minacce e di punti di debolezza) o di esaltarli (nel caso di punti di forza e di opportunità).
La parte descrittiva ha il compito di illustrare tutti gli aspetti fondamentali del progetto e quindi approfondirà i seguenti argomenti:
- una sintesi del progetto: le motivazioni e le caratteristiche principali, gli Swot, i risultati ai quali si intende pervenire, i tempi e le modalità di realizzazione, l’assetto societario, la struttura organizzativa, le caratteristiche del settore, le caratteristiche dell’output o dell’insieme di output;
- l’analisi del mercato di riferimento, vale a dire se l’output si inserisce in un settore di nicchia o più generalistico, le eventuali barriere all’entrata e la quota di mercato potenziale, l’analisi dei competitors, gli approvvigionamenti e quindi i rapporti coi fornitori, la facilità di reperirli, le eventuali scontistiche e i servizi accessori;
- le strategie produttive e commerciali, quindi i piani di produzione, intesi proprio come descrizione del processo produttivo o terziarizzazione di alcune fasi del processo (make or buy), i piani di marketing;
- la descrizione delle fonti e degli impieghi potenziali del capitale rispetto all’output e ai risultati attesi.
Va quindi sviluppata la parte analitica, che consta in sostanza di conti economici, stati patrimoniali, rendiconti finanziari e cash flow statements presuntivi sviluppati in un arco temporale di 3 o 5 anni.
La scelta del periodo di espansione dipende dal settore nel quale l’impresa opera: sarà minore in ambiti ad alta tecnologia in quanto vi sono profondi cambiamenti nel breve periodo, mentre potrà attestarsi sul quinquennio nel caso delle commodities. Bisogna tener presente anche la fase del ciclo di vita dell’azienda durante la quale si intende intervenire, perché vi sarà maggiore aleatorietà e quindi maggior rischio di lunghe previsioni inesatte in start-up, piuttosto che per progetti di imprese che sono in fase matura.
Va tenuto ben presente che è importante evidenziare la qualità e la quantità delle fonti rispetto agli impieghi che si intendono assumere. Pertanto è opportuno che durante l’arco temporale di analisi i cash flow siano in grado di ripianare gli esborsi di capitale circolante e gli investimenti netti iniziali. È importante anche riguardare alla capacità di indebitamento nella scelta dell’an e del quantum di capitale di debito.
Ricordiamo che il venture capitalist non ha alcuna garanzia non solo di remunerazione ma neppure di rimborso di quanto investito e quindi è fondamentale che i piani prospettici riflettano una situazione adeguatamente bilanciata e redditizia.
I criteri di valutazione diretti e indiretti
Sulla base dei dati espressi nel business plan, l’investitore procede a valutare il progetto per giungere alla decisione di investire o meno nella start-up. Le metodologie di analisi sono di tipo diretto o indiretto.
I metodi diretti sono quelli basati sull’applicazione ai valori aziendali di moltiplicatori estrapolati dal mercato delle negoziazioni di borsa o da transazioni comparabili. I multipli sono espressi dal rapporto fra un prezzo e una misura di performance realizzata e calcolata su un campione comparabile.
I metodi cosiddetti indiretti, invece, determinano il valore sulla base dei flussi finanziari o reddituali attesi e della consistenza patrimoniale. In questo caso vengono attualizzati ad oggi i flussi attesi per un periodo di medio-lungo termine. Il tasso utilizzato per l’attualizzazione varia a seconda del modello che si intende utilizzare:
- il metodo “asset side”, intende conoscere il valore del capitale operativo dell’azienda, considerando tutto il capitale investito, sia di rischio che di debito. Pertanto in questo caso il valore del capitale economico sarà dato dalla differenza fra il valore operativo e gli oneri finanziari (unlevered cash flow, vale a dire i flussi monetari che non tengono conto delle operazioni legate alla gestione finanziaria ma solo a quella operativa). Questi cash flow sono quelli effettivamente disponibili per remunerare le fonti, indipendentemente dalla loro natura, e vengono attualizzati col Wacc, vale a dire il costo medio del capitale. Ovviamente, per un confronto omogeneo fra le grandezze viene assunto sia il costo del capitale equity sia di quello debt e quindi il risultato è legato anche al tasso di interesse di remunerazione dei mutui, oltre che al tasso atteso dagli investitori in capitale di rischio. Questo tasso è determinato attraverso il Capm (Capital Assets Pricing Model);
- il metodo “equity side”: il valore del capitale economico considera solo la parte rischiosa e quindi i flussi di cassa da attualizzare sono quelli al netto della gestione finanziaria. Così anche il tasso di sconto è il costo del capitale, come definito dal Capm, quale sommatoria del tasso di rendimento delle attività prive di rischio (generalmente Btp, buoni del tesoro pluriennali) e del prodotto fra il premio per il rischio di mercato (pari alla differenza fra il rendimento medio del portafoglio di mercato e il tasso privo di rischio) moltiplicato per il coefficiente beta, che esprime il rischio della specifica azienda. La determinazione di questo coefficiente è abbastanza complicata e non è questa la sede per approfondirne la costruzione.
Tuttavia è importante che coloro che si accingono a confrontarsi col mercato del venture capital ne conoscano almeno superficialmente le modalità e gli strumenti di valutazione, per potersi meglio confrontare con gli investitori. Per le società quotate determinare il beta è abbastanza semplice, perché spesso gli intermediari finanziari pubblicano i beta di mercato relativi alla società quotata o a un campione ad essa omogeneo, mentre è più difficile costruirlo per una società non quotata, quale è la start-up. In questo caso, vista l’eccessiva laboriosità di calcolo, spesso ci si riferisce a beta di imprese analoghe per settore e per caratteristiche che siano quotate e li si rettifica in base a specifici rischi della società target oppure, nel caso in cui questa operi in diversi settori, il suo beta sarà il risultato della media ponderata dei beta dei vari business.
L’accordo e il disinvestimento
Una volta valutata positivamente la realizzazione del progetto, il venture capitalist decide di diventare socio della start-up e definisce gli accordi che regolano la sua presenza in azienda e la successiva dismissione della sua quota. Non dimentichiamo infatti che l’obiettivo primario dell’azienda è quello di ricevere risorse monetarie e know-how tecnico dall’investitore, mentre quest’ultimo ha lo scopo di realizzare capital gain tanto più alti quanto maggiore è l’impegno e il rischio dell’operazione.
Il primo accordo fra le parti viene definito però ben prima della scelta di entrare nel capitale, ma già nella fase conoscitiva, durante la quale in primis l’investitore si impegna a non divulgare le informazioni delle quali viene a conoscenza al solo fine di valutare l’opportunità di entrare o meno in affari con l’impresa e che quindi devono rimanere private.
Successivamente viene proposta alla start-up una lettera di intenti, che, come il business plan, è un documento complesso e si compone essenzialmente di due parti:
- lo status quo dell’impresa e gli eventuali approfondimenti da effettuare;
- le condizioni di governance poste per entrare in società.
La lettera di intenti ha la sola funzione di indicare quali sono i requisiti che consentano poi lo sviluppo della trattativa e talvolta di prevedere un’esclusiva sull’accordo. Spesso infatti viene inserita la cosiddetta break up fee, vale a dire la penale che deve pagare la società target nel caso in cui, entro una certa data, sia acquisita o faccia entrare in società altri investitori.
Quanto al primo punto vengono determinati il valore dell’impresa, le risultanze attese dell’attività di due diligence, necessarie per il proseguimento della trattativa, e altri parametri oggettivi considerati rilevanti.
In merito alla governance, invece, generalmente viene chiesto un posto in Consiglio di amministrazione, che non deve essere considerato come un’ingerenza ma come una necessaria forma di monitoraggio dell’investimento da parte del capitalist e come opportunità di avere un’ulteriore competenza per la start-up.
Il documento naturalmente conseguente, in caso di positivo esito dell’operazione, sono i patti parasociali, vale a dire regolamenti interni che definiscono le modalità con le quali si devono comportare i sottoscrittori nella gestione dei diritti e doveri connaturati al loro essere soci.
Fra le clausole più importanti si annoverano quelle di partecipazione del venture capitalist alla gestione e/o al controllo della società target e quelle relative al disinvestimento, fase delicata quanto quella di acquisizione della partecipazione.
Partecipazione alla gestione. Come abbiamo già avuto modo di evidenziare, l’investitore non ha interesse a prendere il controllo della società, per il fatto che la sua attività non è quella di fare l’imprenditore, ma di realizzare capital gain dall’investimento in società altrui. Il posto in Cda viene richiesto proprio perché viene erogato capitale di rischio e quindi è fondamentale monitorare da vicino la gestione e contribuire ad essa. Per la start-up questo aspetto ha un effetto positivo perché la gestione può contare su una grande professionalità in campo finanziario, spesso assente soprattutto nelle start-up e invece così importante proprio in un’azienda nella fase iniziale.
La gestione in prima linea dovrebbe portare al raggiungimento di quelle condizioni utili per poi disinvestire e realizzare quanto prefissato.
Disinvestimento. Quest’ultima fase è molto delicata e tanto più difficile nel caso in cui non sia realizzata dopo la quotazione in borsa, perché si tratta di una partecipazione poco liquida. Per renderla più agevole nel patto parasociale saranno inserite clausole quali:
- diritto di prelazione: questo accordo è di norma inserito negli statuti delle Srl italiane che, pur essendo società di capitali, hanno una vocazione piuttosto personalistica e l’intuitus personae è particolarmente spiccato. Con questo accordo si stabilisce che chi intende vendere la sua quota debba prima offrirla agli altri soci e possa trasferirla a terzi solo nel caso in cui i primi non la vogliano rilevare alle condizioni poste dal venditore. Questa postilla, rivolta alla generalità dei soci, di fatto parifica quanto alla vendita i diritti dei soci di maggioranza e di quelli di minoranza, tra cui il venture capitalist, e lo mette al riparo da possibili operazioni fatte a prezzi fuori mercato o per favorire l’ingresso di nuovi soci che cambino la compagine in termini di attitudini e orientamenti gestionali, che non siano più adeguati per l’investitore;
- “tutto o niente”: questa clausola è fondamentale per l’investitore istituzionale che potrebbe essere limitato dalla clausola di prelazione. Infatti è possibile che, proprio per il diritto di prelazione, un socio decida di acquisire solo parte della quota messa in vendita dal venture capitalist, lasciandogli una percentuale più difficile da vendere, in quanto non qualificata o significativa. Questa opzione invece lo mette al riparo da questo rischio e la vendita è più facile;
- opzione put: è fondamentale per l’investitore la possibilità di uscire dalla società entro cinque o sette anni dall’investimento, pertanto cercherà di far inserire nei patti parasociali o la clausola per cui ad una certa data sia messa in vendita tutta la società (riserve drag alone right), fermo restando il diritto di prelazione, oppure quella che obbliga gli altri azionisti o quello di maggioranza a riacquistare le quote del venture capitalist a una certa data o entro un determinato periodo e ad uno strike price determinato secondo regole predefinite.
(per maggiori approfondimenti vedi Finanziamenti&Credito, Novecento media)