A dispetto dell’ortodossia open source, qualcuno comincia a insinuare che Linux e mercato di massa e Linux e risparmio non sempre vadano di pari passo. Pura provocazione?
1° aprile 2004 C’è un ricercatore australiano che si chiama Tom
Healy, che lavora per l’Institute for Policy Innovation (Ipi) di Sydney. Healy,
che è anche un ingegnere del software ha inanellato una serie di conclusioni,
relative a un rapporto che ha condotto per l’Ipi che definire ardite (per
sfrontatezza, coraggio o sincerità: fate voi) è poco.
Eccole.
Healy
doveva svolgere il tema: è possibile che l’open source non sia proprio la strada
migliore per creare software per il mercato di massa?
La risposta a cui
l’australiano è addivenuto è: sì, è possibile. Perchè?
Voilà: l’innovazione
nei mercati di massa (tipo quello dei computer game) è portata avanti da chi ha
fini commerciali; i progetti opensource che vanno per la maggiore sono sostenuti
da ambiti accademici e scientifici, il cui metro di valutazione è eminentemente
quello della ricerca e non del prodotto (intesi in valore assoluto); gli stessi
ambiti non sono interessati a proteggere il software come fanno gli sviluppatori
commerciali, perchè alla fine del mese il loro stipendio glielo passa lo stato
(sono più liberi di filosofeggiare, insomma), mentre i produttori di software
commerciale devono farsi pagare dal mercato; e, chicca finale: un progetto
opensource può permettersi il lusso di essere lasciato per strada, mentre uno
commerciale deve rendere conto a chi lo finanzia (che è sempre la logica del
mercato).
Si spera che a Healy non tocchi la stessa sorte di Salman Rushdie:
che sia “pazzo come un canguro”, a voler toccare i fili dell’ortodossia
opensource? (Guai a chi osa mettere in discussione la “religione” open, che
propugna libertà, ma occhio a usare bene le parole quando si parla di loro:
vietato sbagliare. La pena, senza appello, è il taglione).
Può essere, ma
non è il solo, se pensiamo alle parole spese in settimana dallo Yankee Group,
che si è sbilanciato in un rapporto al termine del quale ha decretato che una
infrastruttura basata su Linux rischia di essere più dispendiosa di una su
Windows.
E anche stando a quelle del capo del software di Sun, Jonathan
Schwartz, che vuole mettere mano alle modalità di vendita del proprio sistema
operativo, Solaris, adottandone uno simile a quello di Red Hat, che vende Linux
sulla base di un contratto a sottoscrizione.
La logica di Schwartz è quella
non solo di adeguarsi alle mutate condizioni di mercato, ma anche di far capire,
attraverso un uso diffuso, che avere Solaris costa meno che avere Linux.