Processori o multiprocessori. La sfida delle performance

Se l’industria non vive che di record, la vera scommessa nei grandi ambienti di elaborazione aziendale è sui microprocessori. Dopo aver spinto al massimo i limiti della fisica, i produttori, oggi, tendono a procedere per salti tecnologici.

 


24 ottobre 2002 Un compromesso tra miniaturizzazione, potenza e prezzo. Da trent’anni a questa parte, i produttori di microprocessori cercano di destreggiarsi tra questi elementi e di trovare il giusto equilibrio. Assodato che più un transistor è piccolo più i circuiti e le interconnessioni sono corte, più le informazioni passano in fretta, i chip consumano meno energia e costano meno da quando la produzione si è spostata sulle lastre di silicio. A partire dal lancio, nel 1971 del primo chip commerciale, l’Intel 4004, oggi, sui chip più recenti, la velocità di clock è stata incrementata di ventimila volte, il numero di transistor è stato moltiplicato per 18mila e la potenza di calcolo per un milione di volte. Se gli stessi progressi fossero stati applicati alle automobili, i motori delle moderne utilitarie sarebbero oggi più piccoli di una scatola di fiammiferi, avrebbero una potenza superiore ai 200mila cavalli e consumerebbero solo pochi centilitri di benzina per mille chilometri.

I limiti della miniaturizzazione


Finora è stato possibile perfezionare i processi di produzione dei chip per riuscire a uniformarsi alla nota Legge di Moore (che sostiene che il numero di transistor su un chip raddoppia ogni 18 mesi). Ogni due anni, infatti, i progressi tecnologici inducono una riduzione dei circuiti dell’ordine del 30%. Il Pentium III, ad esempio, ha iniziato la sua carriera con uno spessore di 0,25 micron che, già oggi, sui più recenti modelli si è ridotto a 0,13 micron. In questo passaggio, inoltre, la frequenza di clock è passata da 450 MHz a 1 GHz. Ma è pur vero che queste riduzioni successive non possono proseguire, con questo ritmo febbrile, in eterno. Procedendo di questo passo, infatti, si stima che nel 2005 la miniaturizzazione di questi componenti sarà arrivata al limite fisico dei materiali. Le aziende stanno dunque lavorando alacremente, per cercare soluzioni, tecnologie e materie prime alternative. Le ricerche sono indirizzate verso la riduzione delle dimensioni dei transistor. Con il procedimento litografico utilizzato al giorno d’oggi, alcuni elementi diventano sempre più piccoli, alcuni addirittura sfiorano gli 0,1 micron e divengono persino più piccoli della lunghezza d’onda del fascio di luce utilizzato per creare il negativo del transistor. Quando si ragiona su queste dimensioni, diventa impossibile utilizzare la luce nella creazione dei microprocessori e si rende necessario valutare strade alternative quale quella degli ultravioletti che, con una lunghezza d’onda pari a 0,01 micron, permetteranno di andare avanti nella sperimentazione di nuove tecnologie di miniaturizzazione perlomeno fino al 2011. Ridurre le dimensioni del chip produce ulteriori vantaggi. Il più rilevante è che diviene possibile incorporare più transistor (dunque, in definitiva, più funzioni) nello stesso spazio. Diversi elementi che erano disseminati nel sistema possono, in questo modo, essere raggruppati all’interno del processore, con il beneficio di limitare i colli di bottiglia. Infatti, con questo procedimento, viene ridotta al minimo la necessità di abbandonare rapidamente l’accesso al processore per la maggior parte dei compiti. Altro beneficio è che la moltiplicazione dei transistor permette di ottimizzare il funzionamento interno del processore, ad esempio processando in parallelo diverse istruzioni per ciclo di clock. Questo è quello che viene definito il procedimento superscalare, utilizzato all’interno della maggior parte dei processori oggi in commercio.


Rimane, però, il fatto che questo espediente tecnologico non è sempre utile per ridurre le dimensioni dei transistor e migliorare le performance. Un’altra soluzione consiste nell’utilizzare il rame, al posto dell’alluminio, per laminare i circuiti. Il rame è un conduttore migliore e offre minore resistenza elettrica e questo permette di aumentare la frequenza del chip del 20/30%. I laboratori di Texas Instruments stanno cercando di andare anche oltre e stanno sperimentando una combinazione di rame con un materiale innovativo, chiamato Xerogel, che dovrebbe consentire di migliorare ulteriormente le performance dei processori. Ma la ricerca si indirizza anche verso altri fronti e, in particolare, alcuni si propongono di trovare un conduttore più veloce in alternativa al silicio. Su questo terreno, Ibm ha fatto un notevole passo avanti con la commercializzazione della tecnologia Soi (Silicon on insulator). Con questo procedimento, componenti del microprocessore sono posizionati non sulla lastra di silicio ma su un isolante di vetro. Si ottiene, in questo modo, un segnale più puro, grazie al fatto che si evitano i parassiti e le perdite degli elettroni. Infine, il silicio funziona a una temperatura più bassa e accetta delle tensioni elettriche superiori. In pratica, questi accorgimenti permettono di migliorare del 20/30% le performance aumentando la frequenza. Oppure, in alternativa, di ridurre i consumi del 65% a parità di frequenza. Se finora la maggior parte dei progressi sono stati raggiunti sul fronte della fisica, oramai i produttori cercano di puntare sui miglioramenti delle architetture di sistema.

Il parallelismo per Ibm e Intel


Nel corso degli ultimi anni, gli approcci radicali si sono moltiplicati, con il risultato che i miglioramenti non sono più progressivi ma quantici. Su Itanium, ad esempio, Intel ha deciso di rivedere totalmente il funzionamento interno del processore. In un’architettura tradizionale, le informazioni sono trattate in modalità sequenziale dal processore. Il chip ha in carico, quindi, la funzione di "spezzettare" i compiti, per permetterne l’esecuzione in parallelo. L’Itanium di Intel adotta un approccio totalmente differente: è il compilatore che si assume il compito e ottimizza l’esecuzione simultanea di porzioni di un programma. Il parallelismo è, allora, qualificato come "esplicito" e si parla, in questo caso, di Explicity Parallel Instruction Computin (Epic). Con questa tecnica, Itanium è in grado di trattare fino a venti operazioni per ciclo di clock, contro meno di una dozzina di un processore classico. Il processore è anche più semplice, perché non deve prendere in carico la gestione delle tappe di conversione delle istruzioni. Tuttavia, queste performance dipendono tantissimo dalla qualità del codice generato. Un compilatore Epic deve, effettivamente, scorrere una buona porzione di programma per scoprire quali parti parallelizzare. Si tratta di un’operazione delicata che obbliga sovente lo sviluppatore a modificare le applicazioni per cercare di trarre il meglio dal processore. Con Power 4, presentato nel novembre del 2000, Ibm ha intrapreso un cammino completamente diverso. La sua teoria è che, al di là di un certo punto, diviene difficile aumentare le performance lavorando sulla parallelizzazione delle istruzioni. In compenso, due processori che lavorano in parallelo, potranno migliorare sensibilmente le performance dell’insieme generato, in modo quasi lineare, se sono in grado di condividere bene le rispettive informazioni. Ibm ha dunque scelto di inserire due processori su un medesimo chip, per creare un processore ottimizzato per i trattamenti multiprocessing. Si tratta di un approccio originale che tiene anche conto dell’ambiente applicativo del processore. Siccome i sistemi operativi sono già ottimizzati per il funzionamento in modalità multiprocessore, non si dovrà intervenire sulle applicazioni o sul compiler. Quanto all’aumento di potenza, questo si ottiene per aggiunta successiva di moduli supplementari, come avviene per i grandi sistemi. Difficile sapere chi, tra Ibm e Intel, abbia ragione. Da una parte come dall’altra le performance prevedibili sono impressionanti: tanto l’Itanium quanto il Power 4 sorpassano (sulla carta) tutti i record stabiliti dai precedenti processori.

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