Anche in azienda è l’ora della famiglia allargata

Un’indagine del Centro di ricerca sulle imprese di famiglia dell’Università Cattolica evidenzia come sia giunto il momento di rivedere un modello finora considerato vincente.

Le aziende di famiglia, in maggioranza piccole e medie (salvo quelle, pochissime, che negli anni sono diventate grandi), hanno fatto la fortuna economica del nostro paese.

Questo grazie a una miscela di genialità e creatività, capacità imprenditoriale, predisposizione al lavoro e al sacrificio. Un difetto? Una vocazione al nanismo, spesso conseguenza di una scelta voluta. Cosa che, nell’epoca della competizione globale, non va tanto bene, e rischia di mettere in crisi un modello che fino a qualche anno sembrava vincente e convincente.

Secondo una ricerca realizzata dal Cerif dell’Università Cattolica (l’acronimo sta per Centro ricerca sulle imprese di famiglia) i punti critici sono il rischio sistemico, la pressione fiscale, la riduzione della redditività, la gestione dei passaggi generazionali. Problemi sempre presenti, anche in tempi normali, che però la crisi durissima di questi anni acuisce.

In particolare, nel 2009 si sono fatti sentire pesantemente la caduta verticale del fatturato e quella della redditività dei mercati di riferimento. Due problemi che prospettano uno scenario futuro che più nero non si può, e mettono a rischio la sopravvivenza stessa di molte di queste realtà.
Il consiglio ricorrente è vendere prima che sia troppo tardi.
Ma qui il gatto si morde la coda: con fatturati così bassi, le aziende sono veramente poco appetibili.
E allora cosa fare?

La ricetta suggerita dai ricercatori del Cerif è la solita, valida per tutte le stagioni: fare innovazione, fare ricerca e sviluppo, guardare oltre i confini nazionali.
Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi, visto che occorrono risorse non alla portata.
E qui si torna al problema del nanismo cronico, e della necessità di fare un salto dimensionale, di diventare più grandi.
Di questo ormai c’è diffusa consapevolezza (secondo la ricerca, il 50% delle imprese).
Occorre però cambiare un paradigma e una cultura consolidati: in Italia, i progetti di ricerca e sviluppo, ma si potrebbe dire i progetti di innovazione in generale, si implementano soprattutto per innovare i processi con l’obiettivo di risparmiare sui costi di gestione.

Strategia insufficiente, dicono quelli del Cerif: per competere con qualche chance di successo bisogna fare innovazione di prodotto.
E ancora una volta si ritorna a bomba, ovvero al superamento della concezione del “piccolo è bello”.
Anche qui, come fare?
Il 50% delle aziende che hanno partecipato all’indagine auspicano una minore pressione fiscale, per esempio una detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e sviluppo.

I ricercatori di Cerif e non pochi imprenditori però volano ancora più alto quando indicano nelle aggregazioni (di gruppi di aziende, di un distretto omogeneo,..) in modo da creare realtà di grandi dimensioni capaci di fare massa critica, economie di scala, di mettere a fattor comune attività costose, come appunto la ricerca e sviluppo, gli acquisiti e la logistica, il patrimonio informatico…

Fino a ieri un ostacolo a questo cambiamento era rappresentato dalla ben nota propensione all’individualismo da parte dei nostri imprenditori (“tutto in famiglia”, si diceva), oggi il passaggio generazionale è appannaggio di giovani, spesso provenienti da esperienze all’estero, dotati di una visione manageriale dell’azienda, che capiscono come la crescita dimensionale dell’azienda di famiglia sia oramai una necessità improrogabile.

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