Sopravvivere alla crisi: Pmi, come finanziare l’operatività

L’analisi della situazione e qualche consiglio per resistere alla recessione

Quali sono i fattori che hanno scatenato la più grave crisi degli ultimi decenni?Quali sono i suoi principali effetti e come difendersi? Ecco, in 10 punti, regole e suggerimenti per le nostre Pmi per “sopravvivere” alla crisi La crisi è arrivata da lontano, partendo dalla tarda primavera del 2007, con le prime avvisaglie delle difficoltà di alcune banche americane e inglesi sui mutui sub prime, ed è diventata una terribile tempesta nell’estate del 2008, con il fallimento di Lehman Brothers in quell’ormai fatidico 15 settembre. Quello che è successo dopo è ancora sotto gli occhi di tutti: i ripetuti tracolli delle Borse, il vacillare di grandi e fino allora insospettabili colossi bancari, i tentativi di molti governi di inventare qualche rimedio, il contagio che sembra inarrestabile all’economia reale e molto altro.


Soprattutto, l’incertezza nei confronti del futuro: del resto, come diceva Seneca, il grande filosofo stoico, “se un uomo non sa verso quale porto è diretto, nessun vento gli è favorevole”. E la preoccupazione, delle famiglie e delle imprese.


Tutti gli osservatori economici sono ormai convinti che la recessione, nei paesi industriali avanzati, continuerà per buona parte del 2009, se non per tutto l’anno. La crisi è dunque un fenomeno con il quale dovremo convivere abbastanza a lungo, dunque occorre attrezzarsi per sopravvivere.


Cercando innanzitutto di capire qualcosa in più su cause e fenomeni di questa crisi, inizia in questo numero una serie di articoli dal titolo “Sopravvivere alla crisi” in cui si esamineranno alcuni aspetti particolari che riguardano direttamente l’operare quotidiano di molte nostre aziende:



  • come possono comportarsi le imprese, e in particolare le Pmi, per finanziare la propria operatività in un mercato domestico sempre più asfittico e, soprattutto, nei mercati internazionali;



  • qual è l’evoluzione del rischio di alcuni tra i più importanti paesi esteri di riferimento per le nostre esportazioni e i nostri investimenti, al di là dei paesi europei e occidentali: in particolare i Bric (Brasile, Russia, India e Cina), Romania e Turchia;



  • come orientarsi in un mercato dei rischi finanziari, cioè del rischio relativo a cambi e tassi d’interesse, che sembrano impazziti nell’ultimo anno: fino a metà 2008 sembravano andare in un’unica direzione, in seguito hanno preso la strada diametralmente opposta.


Le cause della crisi


Analizzare un fenomeno complesso come la crisi in atto, e tentare di individuarne le cause scatenanti, è senz’altro un impegno lungo e difficile, perché è sempre arduo esaminare la storia economica che si sta vivendo in maniera obiettiva.


Gli economisti danno ancora risposte diverse sul great crash del 1929, figuriamoci su una crisi ancora in piena evoluzione.


Tuttavia qualche spiegazione dobbiamo cercarla, non per un puro esercizio accademico, ma per capire meglio quali sono e saranno i possibili sviluppi sulla finanza e l’economia reale, e per decidere come, in pratica, chi ha la responsabilità di un’impresa si debba muovere sui mercati della moneta e delle merci.


Una cosa che è subito emersa chiaramente è che il violento precipitare della situazione, nel settembre scorso, in seguito al fallimento di Lehman Brothers ha fatto piazza pulita delle teorie monetariste e liberistiche, purtroppo fatte proprie dall’amministrazione americana e dalla Federal Reserve, secondo le quali i mercati trovano comunque in sé la risposta alle turbolenze, e quindi c’è limitato bisogno di intervento da parte degli Stati. Dal 15 settembre c’è stato un susseguirsi di interventi attuati o proclamati, a livello di singoli governi, di Ue, di G7, G20 e così via. Il che è un’implicita ammissione che, quando la situazione è così grave, c’è bisogno degli interventi degli Stati e delle organizzazioni multilaterali.


Molti continuano a dare in realtà una spiegazione riduttiva della crisi, per convenienza o per incapacità di analisi, dando la colpa a meccanismi finanziari inadeguati e pericolosi, o all’avidità di alcuni banchieri di pochi scrupoli: tuttavia, se non si guarda lontano nel passato, non si riesce a vedere più in là del proprio naso nel futuro.


Fra gli infiniti interventi sulle cause della crisi, molti assai interessanti, se ne citano due, che sembrano avere questa capacità di visuale retrospettiva e prospettica.


Il problema derivati. Del consiglio del primo di questi due esperti è meglio tener conto perché si tratta non di un economista o di un teorico ma dell’uomo che, grazie alla propria filosofia della finanza e al proprio stile d’investimento, è diventato il più ricco al mondo: si tratta di Warren Buffett. Per inciso, pur essendo ricchissimo (il suo patrimonio personale è stimato essere, nel 2008, di 62 miliardi di dollari), Buffett non ha niente del finanziere spocchioso e avido: basti pensare che nel 2006 ha donato 37 miliardi di dollari in beneficienza, con lo scopo di aiutare le popolazioni del “terzo mondo” a sconfiggere alcune malattie per le quali ad oggi non ci sono vaccini o cure. L’“oracolo di Omaha” (come viene definito, un po’ per stima e un po’ per invidia) non ha mai scritto un libro in vita sua, ma esprime con chiarezza i propri concetti base nei rapporti annuali della Berkshire Hathaway, la sua holding d’investimento.


Buffett, il cui principio è di investire in attività sicure ed evitare inutili rischi, ha sempre avuto in avversione i derivati.


Nel rapporto alla Berkshire Hathaway del 2002 (molto prima quindi della crisi), scriveva:


“Considero i derivati delle vere e proprie bombe a orologeria, sia per le controparti che li negoziano, sia per il sistema economico (…) Questi strumenti certamente si moltiplicheranno in varietà e numero finché qualche evento renderà chiara la loro tossicità.


Le banche centrali e i governi non hanno finora trovato un modo efficace per controllare, o perfino per monitorare, i rischi posti da questi contratti. Secondo me, i derivati sono armi finanziarie di distruzione di massa, che portano pericoli che, benché ora latenti, sono potenzialmente letali”.


Parole che, come si vede, si sono dimostrate drammaticamente vere, e forse non abbiamo ancora visto tutti i pericoli e i danni di questi strumenti.


Il mercato dei derivati pone tre grandi problemi, che sono emersi in questa crisi:


– l’enormità dei suoi volumi, oltretutto valutabili solo parzialmente a livello globale. Nel suo Quarterly Review del giugno scorso, la Banca dei Regolamenti Internazionali sostiene che nel primo trimestre 2008 i volumi di negoziazioni in derivati sono in crescita in tutti i comparti del 30-50% su base annuale. I derivati trattati nel trimestre nelle Borse Valori ammontano a 692 trilioni di dollari (trilione è un neologismo di questa crisi, equivale a 1.000 miliardi);


quelli trattati Otc (over the counter, cioè al telefono, fuori dalle Borse) sono stati 596 trilioni;


a questi si aggiungono quelli relativi alle commodities, trattati nelle Borse Merci, in aumento del 52% rispetto all’anno precedente. In totale stiamo parlando di quasi due milioni di miliardi di dollari che vengono trattati trimestralmente, e si tratta di cifre approssimate per difetto. Per i soli derivati di Borsa, il valore di mercato lordo a fine 2007 era di 15 trilioni di dollari: il che significa che, se per ipotesi tutti i derivati fossero stati chiusi a quella data, qualcuno avrebbe dovuto dare a qualcun altro ben 15 mila miliardi di dollari, che è molto più dell’intero Pil degli Stati Uniti! È chiaro che nessun governo o autorità sovranazionale può fronteggiare queste cifre;


– la sostanziale incapacità, da parte delle autorità monetarie internazionali e nazionali, di valutare le dimensioni e i rischi di tale mercato, e quindi di controllarlo in qualsiasi modo. Addirittura, molte banche fanno fatica a controllare i rischi in derivati presenti nel proprio portafoglio, come hanno dimostrato i casi di Bear Sterns e Société Générale;


– l’effetto di trascinamento dei problemi e delle crisi, dalla finanza all’economia reale.


Questo avviene perché nel mercato dei derivati, come in ogni mercato finanziario, ci sono (semplificando) tre categorie di protagonisti: i clienti (in genere imprese) che si vogliono coprire dai rischi su tassi d’interesse, cambi, merci, titoli, indici ecc.;


i market makers, che hanno posizioni di rischio e fanno i prezzi; e, in mezzo, le banche commerciali, che fanno da intermediari fra gli uni e gli altri. È chiaro che quindi le banche risentono dei problemi e delle difficoltà sia dei clienti (come è avvenuto in Italia negli anni scorsi, quando molte imprese che avevano contrattate derivati strutturati hanno subito forti perdite), sia dei market makers (come è successo nei casi dei mutui sub prime e di Lehman Brothers).


Un modello di sviluppo sbagliato. Il secondo intervento che merita di essere menzionato è quello di un grande economista, Jeremy Rifkin, che da anni si interroga sulle deviazioni del modello di sviluppo americano e occidentale in genere. In un recente articolo (“La triplice emergenza”, L’Espresso, 23 ottobre 2008), Rifkin sostiene che:


“Stiamo vivendo un periodo storico di enorme precarietà. Incombe infatti su di noi la prospettiva concreta di un tracollo economico globale, della portata di quello verificatosi durante la Grande Depressione negli anni Trenta. La crisi creditizia globale è aggravata dalla crisi energetica globale e dalla crisi del cambiamento del clima globale, e tutte insieme contribuiscono a creare un possibile cataclisma per la civiltà umana, diverso da qualsiasi altra cosa alla quale si sia assistito finora. Le tre crisi globali sono collegate tra loro e si alimentano reciprocamente. Affrontare questa triplice minaccia che incombe sul nostro stile di vita obbliga a dare il via a una nuova programmazione economica che riesca a trasformare in modo efficiente le avversità contingenti in altrettante opportunità. (…) Negli ultimi 17 anni, i consumatori americani hanno sostenuto l’economia globale, in buona parte grazie agli acquisti effettuati con le carte di credito. Lo scotto pagato per mantenere l’economia globale sulle spalle di un debito al consumo sempre più alto negli Stati Uniti, tuttavia, ha comportato il dissolvimento dei risparmi delle famiglie americane.


Nel 1991 i risparmi per nucleo familiare erano mediamente intorno all’8%, mentre nel 2006 sono smaccatamente passati nella categoria dei passivi.


Oggi una famiglia americana media spende più di ciò che guadagna: tale situazione si definisce ‘reddito passivo’, un ossimoro che ben rappresenta un approccio errato allo sviluppo economico.”


La perversa cultura della carta di credito (un’altra bolla speculativa che pende come una minaccia sul futuro del credito, non solo americano) insieme a un uso sconsiderato delle risorse di idrocarburi e al danno sul clima del nostro pianeta, di cui i recenti cataclismi sono una testimonianza fin troppo evidente, costituiscono le basi più profonde della attuale crisi, al di là delle sue manifestazioni finanziarie.


Per risolvere la crisi, bisogna quindi rivedere un modello di sviluppo basato sul credito facile, sulla finanza creativa, sull’affidarsi solo a petrolio e gas per risolvere tutti i problemi legati ad una domanda sempre crescente di energia per la produzione, i trasporti, il riscaldamento.



Gli effetti della crisi sui mercati


Il primo più evidente effetto della crisi è stata la stretta creditizia che si è verificata in quasi tutti i mercati mondiali. L’accesso più difficile al credito è stato causato dall’aumento considerevole dei tassi sui mercati interbancari. A fine settembre, l’Euribor a 3 mesi era 170 basis points (1,70%) più alto del tasso di riferimento della Bce, mentre il tasso dell’eurodollaro è arrivato a quotare oltre il 3% sopra i tassi dei Federal Funds Usa. Non solo, ma le banche che si trovavano in crisi di liquidità non trovavano nessuna altra banca disposta a prestar loro fondi sul mercato interbancario, e quindi a loro volta stringevano ancor di più il credito. Alla crisi di liquidità si è quindi unita una generale crisi di fiducia. A farne le spese, naturalmente, sono state famiglie e imprese, che hanno visto aumentare i costi dei propri debiti con le banche. Soprattutto le imprese, che hanno bisogno di effettuare investimenti e quanto meno di finanziare il proprio working capital (circolante operativo), per di più in un momento in cui i clienti pagano tardi e male. Né sono finora bastati i provvedimenti presi dalle autorità monetarie e di governo (riduzione dei tassi d’interesse in Usa, Ue e Regno Unito, provvedimenti a tutela delle banche e dei risparmiatori, in qualche paese programmi a favore delle imprese). La stretta creditizia e la contrazione dei consumi hanno trasmesso con una velocità incredibile all’economia reale i problemi delle banche.


Al di là dei fenomeni più evidenti, che del resto sono sotto gli occhi di tutti, ci sono anche dei piccoli, ma non per questo meno importanti, effetti collaterali. Ad esempio, il ruolo che le agenzie internazionali di rating, che è centrale nell’ordinamento monetario mondiale, è stato messo in discussione: basti pensare che non più tardi del giugno 2008 (tre mesi prima del fallimento) Moody’s attribuiva a


Lehman Brothers una valutazione di A1, cioè di tutto rispetto, anche se non fra le migliori. Lo stesso governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ai primi di novembre ha criticato l’eccessiva centralità delle valutazioni di queste agenzie nella costruzione dei criteri cui si ispira l’Accordo di Basilea 2, auspicandone un superamento. Proprio questo accordo ha manifestato il suo difetto peggiore in questi ultimi mesi: il suo aspetto prociclico, cioè la sua tendenza, attraverso una serie di meccanismi eccessivamente rigidi, ad ampliare le fasi negative del ciclo economico, rendendo più difficile e costoso l’accesso al credito alle imprese con basso rating proprio nei periodi di difficoltà, cioè quando esse hanno più bisogno di finanziamenti.


Anche quello che a prima vista sempre essere un effetto positivo della crisi, cioè la brusca discesa del prezzo del petrolio e dei suoi derivati, ha una sua valenza negativa:


innanzitutto i minori ricavi dei paesi produttori rischiano di rallentare questi mercati, che nei mesi passati stavano diventando uno degli sbocchi principali delle nostre esportazioni; inoltre, il minor prezzo del petrolio e del gas rischia di distogliere l’attenzione da un problema la cui risposta è ormai indifferibile, e cioè la variazione del portafoglio di risorse energetiche disponibili per i paesi non produttori, Italia in testa.


Allo stesso modo, il brusco calo dell’euro contro dollaro potrebbe avvantaggiare le nostre esportazioni, ma anche in questo caso occorre fare due considerazioni: in primo luogo, la maggior parte delle nostre importazioni ci viene fatturata in dollari, che con un dollaro a 1,20 contro euro costano il 25% in più di questa estate; secondariamente, i nostri esportatori hanno dimostrato negli ultimi anni di saper convivere molto bene con un euro forte, spostando la competizione dai prezzi alla qualità dei prodotti, soprattutto nel settore della meccanica industriale.


Il mercato del credito italiano e le Pmi


Se nel nostro paese non ci sono state ripercussioni clamorose come fallimenti o gravi difficoltà bancarie, la stretta del credito in Italia s’è fatta sentire forse più che altrove. Chi ha messo in cantiere investimenti di un certo rilievo in questo autunno, ha dovuto fare i conti con condizioni del credito (tassi d’interesse, garanzie da concedere alle banche, altri termini dei finanziamenti) molto peggiori rispetto a quelle di sei mesi fa, o dell’anno scorso.


In particolare difficoltà molte delle nostre Pmi, strette da una parte da una domanda interna in continuo calo e da una richiesta di dilazioni di pagamento sempre maggiori da parte dei clienti interni ed esteri (per di più in un quadro di rischio di credito crescente), dall’altra dalla difficoltà di accesso al credito, e dai suoi costi crescenti. Pesano, sull’asse portante della nostra economia, una condizione antica di sottocapitalizzazione che non si riesce a correggere facilmente, particolarmente in momenti difficili come l’attuale; la scarsa propensione ad utilizzare gli strumenti finanziari e assicurativi, che pure ci sono, per diminuire l’esposizione delle piccole e medie imprese al rischio di credito; la mancanza di infrastrutture adeguate e di servizi pubblici efficienti; i costi, in termini di tempo e denaro, di una burocrazia e di un sistema amministrativo incapace di ragionare e agire in termini moderni.


La stretta del credito è stata ancora più drammatica per alcuni settori e per le imprese che hanno un rating creditizio peggiore (secondo i criteri di Basilea 2).


Banche molto importanti mi hanno detto non solo di aver revocato i fidi alle aziende nelle due categorie di rating peggiore, ma di averle “poste al rientro” (che, nel gergo bancario, vuol dire che tali imprese devono immediatamente restituire i fidi utilizzati, senza neanche un piano di ammortamento concordato con la banca). La logica conseguenza di queste posizioni è il fallimento, o per lo meno un lungo periodo di estreme difficoltà per queste aziende.


Manuale di sopravvivenza per le Pmi


Come si diceva all’inizio, se il futuro non si presenta roseo, almeno per il 2009, bisogna attrezzarsi per sopravvivere alla crisi, per cercare in un momento di difficoltà una via di uscita e di miglioramento della nostra struttura aziendale.


Quello che segue vuole essere una sorta di “manuale di sopravvivenza” per le Pmi durante questa crisi che si preannuncia purtroppo ancora piuttosto lunga. Pochi concetti, che derivano dall’esperienza quotidiana, condensati in un catalogo di 10 azioni positive di seguito illustrate.


Cercare di sopravvivere. Un mio amico marinaio è solito dirmi che quando il mare è in tempesta, è meglio stare su un rimorchiatore che su uno yatch di lusso. È meglio andare piano ma sicuri, che veloci ma in balìa delle onde.


La stessa filosofia si deve applicare alle piccole imprese: non è questo (salvo settori molto particolari) il momento per i grandi programmi di crescita, ma per il mantenimento delle posizioni. Ho sentito di aziende che, alle prese con il calo della domanda, fanno il giro d’Italia per cercare clienti marginali.


Niente di più sbagliato che concedere condizioni eccessivamente favorevoli a questo tipo di clienti:


primo, si peggiora il rischio di credito dell’azienda, e quindi aumenta la possibilità di ritardi e insoluti;


secondo, si aumenta il fabbisogno di credito dell’azienda, proprio in un momento in cui il credito è scarso e costoso; terzo, anche se le cose vanno bene, in futuro sarà difficile ritornare indietro, e concedere condizioni meno favorevoli a questi clienti quando si sarà superata la crisi. Bisogna al contrario restare attestati sulle proprie posizioni, accontentarsi di piccoli incrementi nel business, e prepararsi per la ripresa, che presto o tardi arriverà.


Focalizzarsi sul business e sull’innovazione. Un’altra facile tentazione in questi momenti è quella di cercare business alternativi rispetto al tradizionale settore di attività. A parte che, ad esempio, un’impresa che produce piastrelle non può mettersi da oggi a domani a produrre pneumatici, non è proprio questo il periodo di procedere a clamorose riconversioni industriali. In alcuni settori queste saranno necessarie, ma quando le acque si saranno calmate.


Bisogna invece cogliere l’occasione per concentrarsi sull’attività che meglio si conosce, cercando di sfruttare le innovazioni di prodotto e di sistema e stimolando la rete commerciale. La storia recente delle nostre imprese è ricca di casi di successo di imprese che sono riuscite, nell’ambito di settori tradizionali (le famose 4 A: agroalimentare, abbigliamento e tessile, arredamento, automazione e meccanica) a trovare una propria specializzazione competitiva, basata sull’innovazione, la ricerca, la differenziazione di stile e design.


Rafforzare il patrimonio.


Proprio in un momento di crisi, è difficile mettere mano al portafoglio dei soci, così come è difficile trovare altri partner disponibili a condividere il rischio d’impresa.


Tuttavia, in questi frangenti, il vero rischio per un’azienda è proprio quello di trovarsi in una situazione di sottocapitalizzazione, perché così essa rischia di essere declassata nel rating delle banche, con le conseguenze che abbiamo visto prima. Quindi soluzioni per il rafforzamento della situazione patrimoniale dell’azienda vanno attentamente ricercate.


Contenere l’indebitamento. È l’altra faccia della stessa medaglia descritta al punto precedente.


Poiché l’indice in assoluto più guardato da ogni analista finanziario è il debt/equity ratio (indebitamento finanziario netto su patrimonio netto), per migliorare tale indice bisogna agire sia aumentando l’equity sia diminuendo l’indebitamento.


Questo ultimo risultato si può ottenere in due modi: ricorrendo il più possibile a tipologie di operazioni che evitano il debito (leasing, anche se le banche non fanno molta differenza con il debito, e soprattutto factoring, forfaiting, sconti pro soluto, crediti documentari per l’export); e riducendo il working capital.


Ridurre il working capital. Il circolante operativo netto costituisce la prima fonte di fabbisogno finanziario dell’impresa. Per ridurre il working capital occorre:


– contenere il più possibile il magazzino, eliminando semilavorati e prodotti finiti obsoleti, cercando di farlo ruotare il più velocemente possibile, migliorando la logistica, curando la qualità e tempestività degli acquisti di prodotti e scorte;


– cercare di ottenere le migliori condizioni dai fornitori, in termini non solo di prezzi, ma anche di strumenti e dilazioni di pagamento;


– gestire il portafoglio dei clienti, non solo attraverso il credit risk management (come si dirà in seguito), ma anche attraverso la scelta delle condizioni e modalità di pagamento che possano soddisfare l’obiettivo del punto precendente, e cioè quello di contenere l’indebitamento. Il rischio di andare alla ricerca dei clienti di “serie B” (domestici ed esteri) in momenti come questo è troppo elevato. Altro rischio è l’eccessiva concentrazione di portafoglio:


in un periodo di crisi globale nessun cliente è sicuro al 100% (ogni giorno ci sono tanti ma ce ne sono tutti i giorni sulle pagine dei giornali economici), e a nessun cliente può esser dedicata una percentuale di fatturato che superi un limite ragionevole (non oltre il 15-20%). Lo stesso ragionamento vale per il rischio paese, verso il quale ogni azienda deve stabilire un massimale di fatturato dedicato e un massimale di esposizione non garantita.


La pulizia dell’attivo non si deve poi ridurre alle attività di realizzo corrente, ma estendersi anche agli immobilizzi, soprattutto a quelli tecnici (macchine e strumenti obsoleti), finanziari e commerciali (crediti inesigibili): tutte voci che appesantiscono inutilmente il bilancio e aumentano il debito.


Tutte queste considerazioni sembrano scontate: evidentemente


non lo sono così tanto, se è vero che proprio su questo tema si incagliano molte aziende, specie fra le Pmi. Il problema è che molti imprenditori guardano troppo l’aumento del fatturato, e non abbastanza l’andamento del capitale circolante operativo. Se lo facessero, si accorgerebbero che se non si fa attenzione allo stock di magazzino, ai giorni creditori e debitori, alle condizioni di incasso e pagamento, molto spesso all’aumento del fatturato corrisponde un incremento più che proporzionale del working capital; la naturale conseguenza è un aumento del debito con le banche. Se non si interrompe questa spirale, il passo successivo è una crisi di liquidità e il peggioramento degli indici di redditività dell’azienda, con un risultato finale spesso infausto. La soluzione è fare previsioni accurate, magari con l’aiuto di una consulenza professionale qualificata, sul business plan dell’azienda, sul budget finanziario, sull’andamento degli indici, sulle previsioni di cash flow, e controllare continuamente l’andamento del working capital.


Gestire il rischio di credito in modo dinamico. Il credit risk management è un capitolo fondamentale sia del contenimento del working capital, sia della più generale gestione della finanza e del debito d’azienda. Gestire il rischio di credito, soprattutto nel finanziamento delle esportazioni, vuol dire ottenere pagamenti sicuri:


crediti documentari, cambiali da smobilizzare con operazioni di forfaiting e sconti pro soluto con voltura di polizza Sace, linee di credito garantite da primarie banche internazionali. Quando non si ottiene una di queste modalità di pagamento, è necessario assicurare i crediti con Sace o le compagnie private di assicurazione (per le operazioni a breve termine) contro rischio paese e rischio commerciale, ogni volta che questi rischi assumano livelli troppo elevati. È una cultura d’impresa che vale per ogni dimensione aziendale: dai grandi gruppi multinazionali alle Pmi. Ci sono piccole imprese con fatturato sotto i 5 milioni di euro che lo fanno sempre, con ottimi risultati: alla fine il loro livello di insoluti è inferiore a quello dei loro concorrenti, e inoltre, essendo coperti assicurativamente, hanno un’arma commerciale in più, perché hanno maggiore facilità a smobilizzare i propri crediti e quindi possono proporre un ventaglio di condizioni più vantaggiose per i clienti.


Gestire il rischio di cambio e il rischio finanziario. Questo argomento è stato già affrontato in precedenti articoli di questa rivista e costituirà oggetto dell’ultimo di questa serie di articoli. In questa sede si vuole brevemente ribadire l’importanza di questo tema nella gestione del rischio d’impresa. Del resto basta guardare l’andamento altalenante del cambio euro/dollaro nel corso del 2008, il cui grafico “assomiglia” alle montagne russe e nessuno oggi giurerebbe sul cambio dell’euro/dollaro a metà o a fine 2009.


Attuare una politica di risparmio energetico e diversificazione delle fonti. Il costo dell’energia (per la produzione, i trasporti e la climatizzazione) rappresenta una delle voci più rilevanti fra le spese dell’azienda.


Molte grandi aziende (specie nei settori “energivori” come le acciaierie, la chimica, la meccanica pesante) si sono già dotate di un energy manager, interno o esterno, il cui compito è appunto quello di realizzare gli obiettivi prima detti. Ma il problema è presente per tutte le imprese, Pmi incluse, per due motivi: è ragionevole ritenere che il prezzo del petrolio, dopo questa fase di brusco calo, riprenderà il suo cammino al rialzo;


prima o poi è facile che misure di controllo delle emissioni e di limitazione dei consumi vengano attuate, a livello internazionale e nazionale.


Per cui è meglio prepararsi, e anche cogliere le opportunità di finanziamento dell’efficienza e del risparmio energetico che sono presenti nelle normative comunitarie, nazionali e regionali.


Non bloccare il processo di internazionalizzazione. Una delle tentazioni di molti imprenditori, quando soffiano i venti della crisi mondiale, è quella di rinchiudersi nel proprio guscio. A questa preoccupazione, legittima ma mal riposta, rispondo con la battuta tipica di un grande imprenditore veneto, a capo di un gruppo presente in molti paesi emergenti: a chi gli chiede quanti posti di lavoro si siano persi in Italia con la delocalizzazione produttiva, egli risponde che probabilmente è stata proprio l’internazionalizzazione del gruppo a salvare i posti di lavoro in Italia.


L’internazionalizzazione (dalla semplice esportazione, alla costruzione di reti commerciali, agli investimenti produttivi) non è una scelta, né una necessità, ma una visione strategica, nella ricerca di nuovi mercati che solo una presenza stabile può garantire nel tempo. Tutte le stime di questi ultimi mesi danno per scontato un rallentamento del Pil mondiale, ma con il permanere di una crescita, da parte di alcuni paesi emergenti (Cina, India, Brasile e altri), almeno doppia rispetto a quella dei paesi industrialmente avanzati.


Probabilmente saranno proprio questi paesi che potranno sostenere il nostro export in un anno terribile come si preannuncia il 2009.


Gestire attivamente la politica di rating e il dialogo con le banche. L’attuazione pratica dei criteri fissati dall’Accordo di Basilea 2 non ha avuto un esordio molto felice nel nostro paese. La comunicazione banca-impresa è stata del tutto episodica, e le banche, benché fossero tenute a farlo, non hanno reso noto i criteri da loro seguiti per fissare i sistemi di rating interno, né hanno comunicato ai singoli clienti il loro posizionamento nelle classi di rating, ed eventuali miglioramenti o peggioramenti.


Applicato così, Basilea 2 rischia di mostrare i suoi lati peggiori, cioè la rigidità e l’aspetto burocratico, piuttosto che i lati migliori, cioè il più facile accesso al credito per le aziende che migliorano conti e posizione competitiva. Le aziende tuttavia non solo devono far valere i propri diritti, chiedendo alle banche di conoscere la propria valutazione di rating, ma devono anche gestire anche una politica di comunicazione e dialogo con le banche. In banca non si va solo per chiedere finanziamenti, ma anche per far conoscere i progetti, le prospettive e le esigenze dell’impresa. Molti funzionari di banca, pressati dalle esigenze di budget interno e dalle direttive della loro direzione centrale, tendono a vendere alle imprese prodotti finanziari standard, preconfezionati e validi per tutti. Non è questo il tipo di rapporto di cui le imprese hanno bisogno, ma di un dialogo sereno e continuo, con interventi mirati a risolvere le particolare esigenze di finanziamento della singola azienda.


(per maggiori approfondimenti vedi Finanziamenti&Credito, Novecento media)


L’autore è docente del Master in Commercio internaz. e di Economia e tecnica degli scambi internaz. all’Università di Padova

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