Sempre più Pmi

Secondo l’indagine di Unioncamere sale il peso delle medie aziende, cala quello delle grandi e le piccole fanno fatica a crescere

Medie che pesano sempre di più, grandi aziende che arretrano, piccole che trovano difficoltà nel fare il “salto” dimensionale. E’ la fotografia del sistema della manifattura italiana scattata, come di consueto, dal Rapporto Pmi curato da Unioncamere e Istituto Tagliacarne. Quello che emerge è un sistema che continua a polverizzarsi, in cui le piccole e medie imprese “guadagnano” in poco meno di un decennio il 2,8% del valore aggiunto del settore manifatturiero “perso” dalle grandi. La riduzione di “peso”, in termini di prodotto lordo, delle grandi aziende si deve alla diversa dinamica di crescita rispetto alle piccole e medie.

Infatti, nel periodo considerato mentre per le piccole e medie imprese (fino a 249 addetti) l’incremento medio annuo del valore aggiunto è stato pari al 2,7%, quello delle grandi (oltre 250 addetti) è stato dell’1%. Il rafforzamento delle Pmi, però, non è avvenuto in maniera uniforme a livello territoriale. Le piccole e medie imprese sono cresciute molto nel Mezzogiorno (+4,3% il loro tasso di incremento medio annuo del valore aggiunto) e nel Centro (+3,1%), meno nel Nord-Ovest (+2,4) e nel Nord-Est (+2,2%). Nel Nord-Est, però, le imprese maggiori hanno tenuto meglio, aumentando annualmente il proprio valore aggiunto del 3,3%. Questo fa sì che il Nord-Est sia l’unica area del Paese in cui, dal 1995 ad oggi, le grandi aziende hanno accresciuto il loro peso percentuale sul valore aggiunto mentre la piccola e media impresa l’ha diminuito.
In questo panorama in trasformazione, nuovi attori – di piccola dimensione, ma con una forte carica competitiva – si vanno progressivamente affermando, svolgendo un importante ruolo di “cinghia di trasmissione” tra la micro impresa diffusa e le poche medie e grandi aziende. Sono quelle imprese che potrebbero fare il salto verso la media dimensione e che hanno aspettative positive rispetto all’andamento degli affari. Si tratta di un nucleo di circa 15mila delle 540mila aziende manifatturiere con meno di 249 addetti, simili tra loro per caratteristiche, che, pur costituendo solo il 3% del totale delle imprese, rappresentano il 19% del valore aggiunto del settore ed occupano circa 900mila addetti.
Questa tipologia d’impresa sta registrando ottime performance in termini di fatturato (a +22,7% ammonta il saldo delle stime del 2006 contro un -3,0% del totale manifatturiero), di esportazioni (+14,9% contro il 5,6% del totale del settore) e ha previsioni di investimento elevate per il 2006-2007. Infatti, il 32,5% degli imprenditori realizzerà investimenti nel biennio a fronte della media del 7,4%.
Da tutto il corposo segmento delle Pmi manifatturiere provengono, comunque, buone aspettative per il 2006-2007. Stando all’indagine effettuata su 3.500 imprese, contenuta nel Rapporto Pmi, un terzo delle imprese (33,8%) stima che il proprio livello di competitività possa migliorare entro il 2007, il 56,6% ritiene che rimarrà stabile e soltanto il 5,9% prevede che possa peggiorare. Tra le imprese con 50-249 addetti si concentra la quota più elevata di ottimiste (48,8%). Quota che scende al 39,7% tra le imprese con 10-49 addetti e al 32,4% tra quelle con 1-9 addetti. Il Mezzogiorno si presenta con la più elevata quota di previsioni positive: 41,4% delle imprese rispetto al 29% del Centro e del Nord-Ovest. Il settore della meccanica è quello che si pone in prima posizione (50,3% delle imprese) circa le aspettative di miglioramento della competitività, bel al di sopra della media (33,8%) e soprattutto di alcuni settori che, evidentemente, temono di più la concorrenza, come il tessile-abbigliamento (24,4%) e il Pelli, cuoio e calzature (27,6%).
Ma quali sono, a giudizio delle imprese, i fattori su cui puntare per tener alto il livello di competitività? Nelle prime posizioni per elevato grado di importanza si collocano tutti i fattori relativi al marketing, dalla politica dei prezzi (60% degli intervistati), alle relazioni con la clientela (51,7%) e più in generale al posizionamento di mercato come l’innovazione di prodotto e la sua qualificazione (49,9%), la ricerca di nuovi sbocchi di mercato (40,8%), i servizi, compresa la logistica (34,8%).
Minor rilievo viene attribuito ad altri tre fattori di organizzazione e cioè modifica della combinazione produttiva capitale/lavoro (probabilmente in termini di risparmio di lavoro), formazione e qualificazione del personale e certificazione di qualità. Quest’ultimo fattore, che può riguardare prodotti, processi produttivi o l’intera qualità dell’organizzazione d’impresa e che favorisce la difesa del made in Italy, appare ancora poco considerato.
Tra i fattori esterni, che maggiormente possono ridurre la loro competitività, la maggior parte delle imprese (52,3%) indica l’aumento del costo del petrolio, seguito dall’aumento o diminuzione della domanda interna e dall’alta pressione fiscale.
Una significativa preoccupazione riguarda i comportamenti della concorrenza sia sui prezzi che sui prodotti, indicati rispettivamente dal 49,6% e dal 46,9% delle imprese come elementi di potenziale pericolo per la vita dell’impresa.

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