«Rompere gli schemi con l’opensource»

La provocazione viene da Sun, che ormai da tempo cavalca l’onda dell’apertura del codice. Questo modello potrebbe essere anche uno stimolo per spingere le Pmi italiane a investire nell’It

L’economia italiana è ferma e tra le maggiori accusate di questa situazione ci sono proprio le Pmi, che negli anni Ottanta erano il fiore all’occhiello del nostro tessuto industriale, mentre oggi sono accusate di essere immobili, di non investire nella ricerca e quindi non essere in grado di fronteggiare la crescente competizione internazionale.


Ne parliamo con Gianluca Bogi, direttore generale Global Sales Operations di Sun Microsystems, il cui ruolo lo porta spesso a partecipare a incontri con esponenti di Governo, per dibattere sulle mosse da fare per rilanciare dal punto di vista dell’innovazione il nostro paese.


«Se oggi si può discutere sul fatto che i grandi gruppi italiani facciano o meno ricerca – esordisce il manager – è certo che le Pmi, che sono tre volte più piccole dello standard europeo, non riescono a fare innovazione. Che cosa è cambiato dagli anni Ottanta? Innanzitutto non ci sono più le grandi aziende che operavano con successo in settori trainanti, come il farmaceutico o l’elettronica. Inoltre, c’era ancora un’azienda come l’Olivetti, che già allora forse avrebbe dovuto iniziare a diffondere il pc tra gli italiani, senza aspettare il 2000 con Stanca e la sua politica di incentivi. Sotto la coperta delle grandi aziende, certamente i distretti avevano più capacità di innovare, perché c’era un maggior indotto e si produceva più ricchezza».


Vent’anni fa, come ricorda Bogi, è anche emerso il fenomeno del Nord-Est, dovuto alla capacità delle aziende di quell’area di fare sistema. Oggi, con il diverso modo di comunicare avviato da Internet, è molto più difficile riuscire a fare sinergie. Bisognerebbe far sistema utilizzando in modo molto più strategico l’informatica, cosa che non è successa. Però vent’anni fa l’informatica è entrata nelle medie aziende, come dimostra la grande diffusione che ha avuto il sistema AS/400 di Ibm in Italia, anche se poi a ben vedere con l’It ci gestivano solo contabilità e paghe. Allora, forse, se si fosse diffusa una cultura di comunità più aperta, si sarebbe certamente favorito quel sistema che oggi si fa fatica ad attuare. In Italia, inoltre, non si riesce a fare venture capital e quindi non si trovano le risorse per finanziare le nuove idee, per cui i fenomeni che concorrono alla stagnazione attuale sono molti. In alcuni settori, come il tessile, ci sono molte aziende a rischio di chiusura, «mentre invece si sarebbe dovuto investire sulla ricerca con più impegno e magari puntare sulla produzione di tessuti innovativi, come le microfibre, o puntare su ricchi mercati di nicchia, dove i clienti sono disponibili a pagare» osserva Bogi. Però tutta questa situazione, alla fine, non deve essere vista solo come un problema di tecnologia informatica, ma deve riguardare a livello macro-economico il Sistema Paese. E sarebbe di particolare aiuto anche pensare a una politica fiscale incentivante, che spinga l’aggregazione dei vari attori coinvolti, compresi i distretti e le università.


L’auspicio, infatti, è che oggi il distretto, nella sua globalità, si possa muovere con più stimoli verso l’innovazione.


La crisi delle software house italiane


Ritornando alle Pmi, dal punto di visita tecnologico, viene da chiedersi perché le aziende, che sono in difficoltà e oppresse da una concorrenza sempre più agguerrita, non si muovono. «La risposta che ci danno molte Pmi – prosegue il manager – è che non c’è una valida offerta di soluzioni It. E in effetti, ritengo che ci sia una reale difficoltà da parte delle software house, sia internazionali che nazionali, ad approcciare il modello italiano. D’altra parte, vista la specificità delle nostre aziende, è anche impensabile che una realtà internazionale dia delle priorità allo sviluppo di soluzioni per le nostre Pmi, avendo davanti mercati come la Germania o la Cina e l’India, che sono molto più attivi e promettenti. Però anche le software house italiane, proprio per questo motivo, stanno morendo, perché non riescono più a manterere i programmi che hanno avviato anni addietro, in quanto sono rimaste piccole». L’offerta risulta, quindi, squilibrata, perché le software house internazionali offrono soluzioni meno verticalizzate mentre le piccole nazionali riescono ad arrivare a fine mese solo perché continuano a fare manutenzione su un software che magari hanno sviluppato anni fa.


Alla ricerca di nuovi stimoli


Se questa è la situazione, chiediamo, quali possono essere gli elementi di novità che porterebbero a un cambio di paradigma? «A noi di Sun – risponde Bogi – è venuto in mente di sposare l’opensource, che si presenta come un modello nuovo, in quanto propone di fare soldi non con le licenze, che sono gratis, ma con i servizi. Ammesso e non concesso che questo possa essere un elemento innovativo, un’implicazione molto forte dell’opensource è quella di spingere a fare sistema. Se più attori riescono a mettere insieme un puzzle un po’ più compiuto di pezzi di software, molto probabilmente il progetto che serve per legarli tutti insieme risulta meno impegnativo e quindi consente di dar forma a un processo di maggior standardizzazione. Questo potrebbe spingere le Pmi a investire in un’offerta che costa meno, che è anche più manutenibile e non le obbliga a legarsi a un solo vendor, ma a pagare solo il servizio».


Il problema, però, è che l’opensource, come tutte le cose innovative, ha dei tempi lunghi di incubazione, in particolare se si trova contro un sistema legacy molto forte che ha un altissimo installato. «I>Ma un altro problema – sottolinea Bogi – è anche dato dal fatto che il Governo non vuole entrare nel merito della scelta di un’architettura It, perché non la ritiene di sua competenza mentre invece penso che lo sia, perché si tratta di prendere coscienza di posizioni dominanti rispetto a quelle emergenti, tema che riguarda proprio la politica». Sun, da parte sua, ha creato un portale, che si chiama Java Open Business, che mette a disposizione l’infrastruttura, alcune macchine per chi le vuole provare e anche tutti gli aspetti legali, perché è importante verificare, quando si mette in opensource qualche cosa, che sia consentito farlo.


Questo modello, per mettersi in moto, ha però bisogno di una spinta iniziale, non banale: che cioè ci sia qualcuno che paga chi sviluppa software. Infatti, tutti quelli che hanno creato comunità di opensource continuano a sviluppare perché c’è chi li paga.


E questo, secondo Bogi, potrebbe essere un nuovo modo di approcciare lo sviluppo per le software house italiane e di aprirsi al libero mercato, che non va visto come uno sfizio tecnologico, ma come una delle possibilità da giocare affinché questo paese cambi. «Il riscontro che Sun ha avuto con l’approccio opensource è stato notevole – conclude Bogi – ma il vero problema è quello di trovare chi scrive e sviluppa software. Probabilmente le spalle di Sun non sono sufficienti a investire qualche miliardo di euro nel sistema per farlo decollare, per cui dietro a tutti questi movimenti, quando si cerca di rompere gli schemi, ci deve essere una spinta forte, anche economica, per agire. Noi abbiamo un interesse primario a lanciare dei messaggi di rottura, perché sono strumentali al nostro business e ci differenziano dalla concorrenza. Da tempo, peraltro, Sun si propone di essere un po’ il sale dell’informatica. E una conferma di quanto affermo risale a metà degli anni Novanta, con l’arrivo di Java, che abbiamo deciso di mettere subito a disposizione di tutto il mercato, in modo completamente gratuito, per creare un mare più grande dove tutti possano pescare. E questo è anche l’approccio che abbiamo adottato con l’opensource».

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