Secondo Vanetti di Sia-Ssb la tecnologia c’è ma serve preparazione per sfruttarla. Mentre l’azienda deve puntare sulla co-innovazione.
Le tecnologie che ruotano attorno al Web 2.0, considerate indispensabili per realizzare innovazione, sono scontate come l’aria. Per convincersi di questo fatto basta guardare le nuove generazioni, “che non hanno paura della tecnologia, perché per loro è trasparente”. Se a dirlo è Don Tapscott, “guru” delle nuove tecnologie applicate alle strategie di business intervenuto all’Innovation Forum 2008 (è Ceo di New Paradigm e autore di The Digital Economy e del recente Wikinomics), l’affermazione acquista una certa criticità.
Community, blog, wiki, condivisione delle informazioni, accessibilità da ogni tipo di dispositivo purché dotabile di indirizzo Ip (anche la porta di una camera d’hotel), banda larga mobile, multimedialità spinta. O, ancora, Web Services, piattaforme di collaboration, integrazione. Tutti concetti che si sentono da un po’ di tempo, alcuni da parecchio, e che si stanno imponendo nella realtà dato che, appunto, le tecnologie a supporto sono mature e disponibili per tutti.
In Italia, è vero, si stanno imponendo un po’ più lentamente che altrove in ambito business (spesso tra le Pmi non si impongono affatto) e, come fa notare Mario Derba a.d di Microsoft Italia, capita spesso che a casa propria si abbia in dotazione molta più tecnologia di quella che si trova a disposizione in ufficio.
L’importanza della mentalità 2.0
Partendo da questi presupposti, Renzo Vanetti amministratore delegato di Sia-Ssb osserva che “bisognerebbe piuttosto parlare di employee 2.0, cioè di impiegati in grado di affrontare in modo sereno i cambiamenti apportati dalle nuove tecnologie. Quanti, per esempio, hanno le capacità per partecipare a un blog, anche solo per capacità di sintesi?”. Quello su cui bisognerebbe puntare l’attenzione, dice in sostanza il manager, non è tanto la tecnologia in sé ma la mentalità e la preparazione necessarie per sfruttarla al meglio.
Ma tocca anche all’azienda evolvere diventando 2.0 (e anche di enterprise 2.0 si comincia a sentire parlare parecchio). Spiega Vanetti: “bisogna puntare sulla co-innovazione, che significa sfruttare i clienti per fare innovazione e fornitori e partner per fare progettazione”. In questo senso, riprendendo un concetto su cui ha insistito anche Tapscott, oggi è utile parlare non più di R &D ma di C & D, che sta per Cooperation and Development.
Infine, terzo elemento segnalato dall’a.d. di Sia, “per fare innovazione ci vuole un po’ più di scienza applicata a tutte le informazioni che risiedono in azienda, un’area dove la tecnologia può fare davvero la differenza”. Il capitale umano, depositario di tale conoscenza, torna al centro della ribalta all’interno di una contesto tecnologico che dovrebbe ormai essere scontatissimo, data l’età: il knowledge management. Bruno Ronchetti di Accenture lancia una provocazione e chiama in causa i livelli più alti del tessuto umano aziendale, chi determina strategie e scelte. “Siamo davvero pronti per il Web 2.0? Noi constatiamo che una volta che le tecnologie del Web 2.0 sono entrate in azienda si spengono. Forse rimangono imbrigliate nelle gerarchie aziendali?”.
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