Il tema del passaggio generazionale non deve essere sottovalutato neppure nel nostro settore che ha una sua propria evoluzione di mercato. Forte l’impatto nel Triveneto
Giugno 2005, L’azienda italiana (canale Ict compreso, che è fatto per lo più da piccole realtà imprenditoriali in massima parte a gestione familiare) è toccata dal problema del passaggio generazionale, ma solo in rari casi riesce a uscirne indenne. Secondo uno studio dell’Osservatorio dell’Università Cattolica di Milano, fra le prime 100 aziende italiane, il 43% è controllato da famiglie. Di queste, solo il 50% arriva alla seconda generazione. Sempre secondo lo stesso studio, l’età media degli imprenditori è piuttosto alta: per il 79,5% dei casi è superiore ai cinquant’anni. Solo in Veneto i giovani sono più presenti, ma di poco: gli under 30 sono il 6,2%, contro il 4,4% della media nazionale, mentre gli over 60 sono il 66 per cento.
Non è un quadro incoraggiante quello tracciato da Mario Silvano, formatore e consulente di manager di esperienza, relatore dell’appuntamento organizzato da Adico, Associazione italiana direttori commerciali e marketing manager, per dibattere sulla presenza di padre e figlio nella stessa azienda.
Il problema, in Italia, ma soprattutto in zone come il Triveneto, che in pochi anni hanno assistito a una moltiplicazione delle attività presenti sul territorio, pare avere cause diverse: il primo aspetto da sottolineare è la natura delle imprese in questione. Nella maggior parte dei casi si tratta di aziende piccolissime, con meno di 15 dipendenti, attività cresciute a immagine e somiglianza del titolare, difficilmente standardizzabili e trasferibili a qualcun altro, poco vendibili.
La causa principale, comunque, rimane l’evoluzione del mercato. «È per questo che i notai non hanno di questi problemi e i figli ereditano tranquillamente l’attività del padre – spiega Silvano –. Una volta era facile trasformarsi da muratore in impresario edile, ora il mercato è completamente diverso e per stare a galla bisogna pensare a come vendere la produzione».
Nella relazione del formatore entrano in scena anche fattori più personali, discriminanti fra le due generazioni. A fare la differenza fra padre e figlio sarebbe il livello culturale, ma soprattutto i diversi stili manageriali, che riflettono i valori e le esperienze dei due. Tipicamente, il padre ha più senso del comando e bada alla produzione, il figlio si interessa anche ad aspetti come le risorse umane e la soddisfazione del cliente. Spesso il padre vorrebbe che il suo successore fosse una sua copia carbone, senza rendersi conto di come questo sia semplicemente impossibile.
Le soluzioni esposte sono molteplici e cercano in ogni modo di scavalcare i ruoli precostituiti di padre-padrone figlio-esecutore senza esperienza, per avviare una collaborazione proficua di scambio reciproco. L’aspetto su cui Silvano torna più volte è l’importanza nello scoprire le proprie attitudini, fondamentali per decidere il futuro più adeguato per il figlio. Una volta individuate, rivestono un ruolo decisivo anche la formazione e soprattutto il giusto inserimento del figlio nell’azienda. Sarebbe il massimo se il giovane facesse esperienza in settori in cui il padre non eccelle. In questo modo il padre inizierebbe a delegare al figlio, perché il suo apporto sarebbe davvero un valore aggiunto, e l’autostima del giovane ne trarrebbe sicuramente beneficio.





