Mansioni del Lavoratore

Come sono disciplinate le attribuzioni delle mansioni al lavoratore, il demansionamento, l’attribuzione di nuovi compiti e responsabilità.

Attribuzione delle mansioni
L’attribuzione delle mansioni deve avvenire all’atto dell’assunzione e determina l’inquadramento del lavoratore.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza:
– il nesso tra mansioni ed inquadramento deve rispettare quanto stabilito in proposito dalla contrattazione collettiva (Cass. 28.8.2000, n. 11255);
– il contratto collettivo può prevedere che alle medesime mansioni corrispondano più qualifiche differenziate secondo parametri oggettivi (Cass. 1°.7.2004, n. 12092);
– il titolo di studio è irrilevante ai fini della determinazione della qualifica, salvo diverso avviso della contrattazione collettiva (Cass. 14.6.2002, n. 8606) o della legge (Cass. 12.3.2004, n. 5131); tuttavia, nel caso di esercizio di fatto di talune mansioni, il mancato possesso del titolo richiesto per l’attribuzione di una determinata qualifica non ne impedisce il riconoscimento, salvo ovviamente che si tratti di una abilitazione professionale;
– rientrano nel contenuto del contratto non solo le mansioni individuate dal contratto collettivo cui le parti abbiano fatto riferimento, ma anche le obbligazioni accessorie che il lavoratore abbia eventualmente assunto al momento dell’assunzione o successivamente, nella fase dinamica del rapporto (Cass. 17.4.2004, n. 7342).

Parità di trattamento
Secondo la giurisprudenza (Cass. 19.7.2007, n. 16015) non esiste nel nostro ordinamento privatistico un principio che imponga al datore di lavoro di garantire parità di inquadramento a tutti i lavoratori che svolgono le medesime mansioni, atteso che l’art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza ed adeguatezza della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e che l’art. 3 Cost. impone l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non anche nei rapporti interprivati. La mera circostanza che determinate mansioni siano state in precedenza affidate a dipendenti cui il datore di lavoro riconosceva una qualifica superiore, è pertanto del tutto irrilevante per il dipendente al quale, con diversa e inferiore qualifica, siano state affidate le stesse mansioni. Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso potesse riconoscersi la qualifica di dirigente ad un impiegato di primo livello, correttamente inquadrato, in base alla contrattazione collettiva di settore, nella proprio qualifica, pur avendo omesso di considerare la circostanza – ribadita a fondamento del (rigettato) motivo di ricorso – che all’ufficio affidato alla responsabilità dell’impiegato era stato in precedenza preposto personale con la qualifica dirigenziale.

Mansioni promiscue
Sono tali le mansioni riferibili a diverse qualifiche.
In tal caso la qualifica è determinata tenendo conto delle mansioni primarie e caratterizzanti, ossia quelle prevalenti sia sotto un profilo quantitativo che qualitativo (ad es. una mansione può essere svolta con scarsa frequenza, ma con l’impiego di un alto grado di specializzazione) (Cass. 8.7.1992, n. 8330).
Tale criterio non è tuttavia applicabile nel caso in cui la contrattazione collettiva abbia previsto l’esistenza di livelli d’inquadramento intermedi, in cui inquadrare i lavoratori che svolgano mansioni promiscue o criteri più favorevoli al lavoratore (v. Cass. 3.11.2003, n. 16461). In particolare la contrattazione collettiva ben può esigere, ai fini della collocazione nella quali- fica superiore, la prevalenza nel tempo della mansione superiore, precludendone il riconoscimento ove questa sia temporanea ed occasionale (Cass. 10.3.2004, n. 4946).

Irrilevanza dell’inquadramento riconosciuto da precedenti datori di lavoro
La giurisprudenza ha chiarito che nel rapporto di lavoro di diritto privato la carriera professionale si svolge soltanto nell’ambito del singolo rapporto di lavoro. La legge (art. 2103 cod. civ.) non prevede tutela di professionalità pregresse, la qualifica di partenza è quella di assunzione, la tutela accordata della norma opera nel singolo rapporto: il dirigente può essere assunto come operaio e viceversa, quelle che rilevano sono solo le mansioni iniziali e quelle successive nel rapporto. Il diritto ad una determinata qualifica opera soltanto nell’ambito di un determinato rapporto di lavoro, non è uno “status” soggettivo del lavoratore, ed infatti la giurisprudenza di legittimità è costante nell’escludere l’ammissibilità di una domanda di qualifica superiore quando il rapporto di lavoro sia cessato. La mancanza di tutela in via generale della professionalità pregressa ha anche una sua ragione nel fatto che essa potrebbe costituire un bagaglio ingombrante ed impedire l’accesso al lavoro di soggetti non giovani (Cass. 24.1.2006, n. 1302).

Mutamento delle mansioni
Secondo l’art. 2103 cod. civ. il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (Cass. 19.2.2008, n. 4055). Il lavoratore può anche essere assegnato a mansioni di categoria superiore ed acquisire il corrispondente inquadramento alle condizioni previste dalla legge.
Il datore di lavoro ha dunque la possibilità di determinare in corso di svolgimento del rapporto quale mansione il lavoratore deve eseguire tra quelle rientranti nella sua posizione professionale e può modificare – sempre unilateralmente – le mansioni inizialmente assegnate al lavoratore purché dal confronto con la situazione precedente risulti:
– l’equivalenza tra le nuove mansioni e le precedenti;
– il mantenimento della retribuzione in atto.
L’equivalenza delle mansioni deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni stesse considerate nella loro oggettività e di omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza sotto il profilo della competenza richiesta e del livello professionale raggiunto (Cass. 22.8.2007, n. 17896), ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella fase pregressa del rapporto (Cass. 2.5.2006, n. 10091; cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14813 che ha ritenuto sussistente il demansionamento di un dipendente in ragione dell’impoverimento qualitativo dei lavoratori da lui coordinati; sulla sussistenza di tale limite anche nei confronti dei meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale, cfr. Cass. 15.3.2007, n. 6043).
Le regole elaborate dalla giurisprudenza in tema di legittimo esercizio dello ius variandi del datore di lavoro sono volte a configurare una nozione “dinamica” di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni; è principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d’inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale. L’esistenza di un “minimo comune denominatore” di conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e sufficiente a consentire lo svolgimento da parte del dipendente delle nuove mansioni con la preparazione posseduta; anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette al lavoratore d’incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto. In quest’ottica, consona alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro la professionalità non rileva, dunque, come un’entità statica ed assoluta, sganciata dalla realtà aziendale, bensì come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente (Cass. 18.2.2008, n. 4000; Cass. 8.3.2008, n. 5285).
La garanzia dell’irriducibilità della retribuzione, prevista dal citato art. 2103, riguarda gli elementi ordinari del trattamento contrattuale e non si estende automaticamente alle voci aggiuntive attribuite al lavoratore ed alle indennità connesse a mere circostanze di tempo o di modo dello svolgimento delle prestazioni, come ad esempio quelle connesse al disagio, al tempo, al rischio, ecc. (Cass. 8.5.2006, n. 10449). Per queste ultime infatti la garanzia opera con riferimento a quelle corrisposte in considerazione delle qualità professionali del lavoratore che si estrinsecano nelle mansioni espletate, le quali non possono essere soppresse o sminuite da parte datoriale nell’ipotesi di esercizio dello ius variandi, mentre non trova applicazione alle indennità erogate in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa, le quali invece, essendo corrisposte soltanto per compensare particolari disagi o difficoltà del lavoratore, possono essere soppresse allorché vengono meno le specifiche situazioni che le hanno generate (Cass. 19.2.2008, n. 4055 Cass. 27.10.2003, n. 16106). Alla stessa stregua è esclusa dalla garanzia di cui all’art. 2103 cod. civ. la maggiorazione per lavoro notturno, caratterizzata da un’intrinseca precarietà anche qualora l’attività venga prestata secondo regolari turni periodici (Cass. 29.1.2004, n. 1680).

Secondo la giurisprudenza il principio dell’irriducibilità della retribuzione, nell’ipotesi di mutamento delle mansioni, opera anche nelle seguenti fattispecie:
– qualora, variate le mansioni e cessata l’attività in funzione della quale era erogata una particolare indennità, l’erogazione stessa in concreto venga mantenuta dall’azienda (Cass. 13.2.2006, n. 3050);
– allorché il lavoratore percepisca, in forza di sovrainquadramento, una retribuzione superio- re a quella prevista dal contratto collettivo di categoria rispetto alle mansioni in concreto svolte e rimaste invariate anche a seguito dell’assegnazione del corretto inquadramento (Cass. 23.1.2007, n. 1421).
– con riferimento ad un compenso denominato “compenso forfetario per straordinario”, che può essere ritenuto componente irriducibile della normale retribuzione in base al comportamento tenuto dall’azienda (Cass. 13.10.2006, n. 22050).

Salvo diversa e più rigorosa regolamentazione del contratto collettivo, la comunicazione al lavoratore del mutamento delle mansioni può essere effettuata in qualsiasi forma o comunque risultare da un comportamento concludente del datore di lavoro da cui possa ricavarsi la manifestazione del suo consenso (Cass. 27.5.2000, n. 7018), né è previsto un obbligo a carico del datore di lavoro di informare il lavoratore sostituito dei motivi della sua assegnazione a mansioni superiori e del nominativo del sostituto (Cass. 23.1.1999, n. 646).

Onere della prova
In tema di ripartizione dell’onere della prova, la Cassazione ha statuito che, in caso di allegazione di una dequalificazione o di deduzione del demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., incombe al datore di lavoro l’onere probatorio in ordine all’esatto adempimento, provando la mancanza, in concreto, di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero che l’una o l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali, disciplinari o da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. 6.3.2006, n. 4766).
Sul principio di autosufficienza del ricorso per cassazione in tema di domande concernenti un superiore inquadramento con le consequenziali ricadute in termini economici, v. Cass. 22.8.2007, n. 17896; sul principio di non contestazione, in controversie della stessa specie, v. Cass. 15.5.2007, n. 11108.

Divieto di assegnazione a mansioni inferiori
Se la variazione disposta dal datore di lavoro comporta l’attribuzione di mansioni inferiori, essa è illegittima e il lavoratore può rifiutarsi di adempiere ai propri obblighi senza incorrere per questo in sanzioni disciplinari, purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede (Cass. 8.8.2003, n. 12001). Viceversa, se l’assegnazione del lavoratore ad altre mansioni è rispettosa delle condizioni richieste dalla legge, il suo eventuale rifiuto può integrare una violazione degli obblighi contrattuali, legittimante anche il licenziamento disciplinare.
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro, il giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile con ricorso per cassazione ove adeguatamente motivato – deve valutare la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente (Cass. S.U. 24.11.2006, n. 25033).
La violazione del divieto di mutare in peggio le mansioni si ha sia nel caso di assegnazione a mansioni inferiori o non equivalenti, sia nell’ipotesi di forzata inattività del lavoratore cui non venga assegnato alcun compito (Cass. 6.3.2006, n. 4766).
La Cassazione ha avuto occasione di specificare che, in applicazione dell’art. 1460 cod. civ. (eccezione di inadempimento), il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria prestazione in ragione dell’inadempimento del datore di lavoro che continuava ad assegnargli mansioni non corrispondenti ai requisiti richiesti può essere legittimo qualora il giudice, valutando comparativamente gli opposti inadempimenti – e avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse – ritenga che l’inadempimento della parte datoriale sia grave o di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altra parte (1455 cod. civ.) e quindi il rifiuto sia di buona fede e giustificato ai sensi dell’art. 1460, c. 2, cod. civ. (Cass. 16.5.2006, n. 11430).

Deroghe al divieto di demansionamento
L’art. 2103 cod. civ. sancisce la nullità di qualsiasi accordo tra datore e prestatore di lavoro mediante il quale quest’ultimo consenta, implicitamente o esplicitamente, di essere adibito a mansioni inferiori (cioè non equivalenti) a quelle per le quali è stato assunto o a quelle da ultimo svolte con continuità. Con questa previsione il legislatore sancisce l’indisponibilità della posizione professionale del lavoratore, determinando l’inefficacia di ogni modificazione in senso peggiorativo delle mansioni del prestatore ed il conseguente diritto del lavoratore alla restituzione delle mansioni originarie o equivalenti ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno causato alla sua professionalità.
Come esplicitamente disposto dal citato art. 2103 cod. civ., l’assegnazione a mansioni inferiori non è legittima neanche se attuata per il tramite di accordi collettivi (per una conferma in tal senso, cfr. Cass. 24.11.2006, n. 25033). Il demansionamento è tuttavia espressamente consentito in alcune ipotesi formulate dalla legge nell’interesse del lavoratore:
– nel corso delle procedure di mobilità, quando gli accordi sindacali prevedono il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori in esubero con l’assegnazione di mansioni diverse e, più in generale, quando l’accordo costituisce l’unica alternativa al licenziamento (art. 4, c. 11, L. n. 223/1991; Cass. 7.2.2005, n. 2375);
– nel caso della lavoratrice spostata obbligatoriamente ad altre mansioni, durante il periodo della gestazione e fino a sette mesi dopo il parto, per evitare pregiudizi alla sua salute (art. 7, c. 5, D.Lgs. n. 15 1/2001);
– per il lavoratore giudicato inidoneo alla mansione specifica ed adibito ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute (art. 42, D.Lgs. n. 81/2008).

La giurisprudenza ammette il demansionamento quando il lavoratore non sia più in grado di svolgere in modo adeguato la sua prestazione per sopravvenuta inidoneità fisica (Cass. 7.1.2005, n. 239; a meno che ciò non implichi una “mortificazione” del lavoratore, secondo Cass. 19.8.2004, n. 16305). Si segnala, sul punto, Cass. 6.3.2007, n. 5112 secondo cui nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni lavorative, il c.d. patto di dequalificazione, quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, costituisce non già una deroga all’art. 2103 cod. civ., norma diretta alla regolamentazione dello jus variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del 2º comma dello stesso articolo, bensì un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall’interesse del lavoratore; pertanto, il datore di lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso anche con l’impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti nel solo caso in cui il lavoratore abbia – sia pure senza forme rituali – manifestato la sua disponibilità ad accettarle.

Patto di demansionamento
Di recente, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto valido il “patto di demansionamento” (pur con le riserve derivanti dalla possibilità che il lavoratore al termine del rapporto di lavoro impugni il patto per nullità ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2103 cod. civ.) con il quale il lavoratore accetta di proseguire il rapporto di lavoro con mansioni e retribuzione inferiori a quelle di assunzione, se posto in essere per evitare il licenziamento (Cass. 7.2.2005, n. 2375).
Da ultimo la Suprema Corte ha ribadito che il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisce al lavoratore mansioni e conseguente retribuzione inferiori a quelle di assunzione o successivamente acquisite è valido non solo ove avvenga su richiesta del dipendente, ma anche quando l’iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro (Cass. 10.10.2006, n. 21700). In caso di controversia il datore di lavoro è tenuto a provare l’esistenza delle ragioni organizzative che avrebbero comportato il licenziamento (Cass. 22.8.2006, n. 18269).

Demansionamento e danno risarcibile
L’assegnazione dei dipendenti a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del loro livello contrattuale non determina di per sé un danno risarcibile ulteriore rispetto a quello costituito dal trattamento retributivo inferiore cui provvede l’art. 2103 cod. civ. – il quale stabilisce il principio della irriducibilità della retribuzione nonostante l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle già attribuite – giacché deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica dequalificazione professionale.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute a dirimere un contrasto creatosi all’interno della sezione Lavoro in tema di prova del danno da demansionamento e di dequalificazione, affermando che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (cfr. Cass. 14.4.2008, n. 9814); mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato al soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (Cass., S.U., 24.3.2006, n. 6572).
Nel senso, tuttavia, che la lunga durata del demansionamento possa essere ritenuta sufficiente a provare il danno alla professionalità, cfr. Cass. 12.10.2006, n. 21826. Per l’affermazione che l’accertamento che il lavoratore sia stato allontanato da mansioni che per contratto richiedevano una determinata esperienza di lavoro, ossia l’effettiva esecuzione di certe prestazioni, sia sufficiente a ritenere accertato un danno da perdita di esperienza professionale, incidente sul patrimonio, sia pure non esattamente determinabile nell’ammontare, cfr. Cass. 4.4.2007, n. 8475. Sulla natura permanente dell’illecito in questione, e relative conseguenze, v. Cass. 7.5.2008, n. 11142. Il danno da dequalificazione, peraltro, può essere accertato utilizzando, come elemento di presunzione, l’ampiezza del divario fra le mansioni precedentemente svolte dal lavoratore e quelle inferiori successivamente assegnategli. Il risarcimento di tale danno può essere determinato equitativamente dal giudice del merito in misura pari a una frazione della retribuzione relativa al periodo in cui si è verificata la dequalificazione (Cass. 5.10.2006, n. 21406).
Il datore di lavoro che, con un illegittimo demansionamento, abbia leso la salute del dipendente, è tenuto all’integrale risarcimento del danno subito dal lavoratore anche in presenza di concause (fatto salvo, tuttavia, il ridimensionamento proporzionale del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., nel caso di concorso del fatto colposo del danneggiato) (Cass. 26.7.2006, n. 17022). Qualora il giudice abbia accertato l’esistenza di una condotta generatrice di un danno ingiusto e la conseguente legittimità di una richiesta risarcitoria (in via equitativa) per demansionamento, non osta all’accoglimento della medesima l’eventuale inadeguatezza dei criteri di risarcimento indicati dal lavoratore, né l’insuccesso di una consulenza tecnica disposta d’ufficio al fine di quantificare il danno in concreto alla luce di criteri in senso lato oggettivi (Cass. 29.4.2004, n. 8271). Inoltre e principalmente, il giudice può emanare una pronuncia di adempimento in forma specifica, avente contenuto pienamente satisfattorio dell’interesse leso, portante la condanna del medesimo datore di lavoro a rimuovere gli effetti che derivano dal provvedimento di assegnazione delle mansioni inferiori, affidando al lavoratore l’originario incarico, ovvero un altro di contenuto equivalente (Cass. 12.1.2006, n. 425).
Sulla prova liberatoria del datore di lavoro, si veda Cass. 6.3.2006, n. 4766.

Assegnazione a mansioni superiori
Il datore di lavoro può attribuire al lavoratore mansioni superiori a quelle da ultimo svolte con l’assenso dell’interessato. Tale assegnazione può essere temporanea o avere carattere definitivo (promozione).
Taluni contratti collettivi prevedono avanzamenti automatici di livello, in funzione dell’anzianità di servizio, con particolare riferimento ai gradini iniziali della scala professionale.

Assegnazione temporanea
L’art. 2103 cod. civ. stabilisce che nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (Cass. 23.3.2007, n. 7126), dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi (termine prolungabile in relazione al personale con qualifica di quadro e di dirigente: cfr. Cass. 2.7.2004, n. 12179 e, da ultimo, Cass. 4.10.2006, n. 21338).
Ai fini del riconoscimento della qualifica superiore è sufficiente che il lavoratore abbia di fatto svolto mansioni superiori, senza necessità di una richiesta in tal senso da parte del datore di lavoro; viceversa, il riconoscimento non può aver luogo se il lavoratore ha svolto mansioni superiori contro la volontà del datore di lavoro.
Per l’attribuzione al lavoratore di mansioni superiori non è infatti richiesto un provvedimento formale, essendo sufficiente a tal fine che il datore di lavoro manifesti il suo consenso, anche mediante un comportamento concludente (Cass. 27.5.2000, n. 7018).
Nel caso di mansioni promiscue appartenenti a livelli di inquadramento diversi, deve tenersi conto delle mansioni svolte in modo prevalente.
In presenza di una clausola contrattuale collettiva che preveda l’attribuzione del livello corrispondente alla mansione superiore, sempreché questa abbia carattere di prevalenza o almeno di equivalenza nel tempo, il giudice deve compiere un’indagine rigorosa quanto alla continuità, alla rilevanza ed all’impegno temporale giornaliero richiesto dalle diverse mansioni espletate. Se la comparazione non è possibile occorre adottare i criteri validi per l’ipotesi di assenza della disciplina collettiva in materia (criterio della comparazione qualitativa e quantitativa, con prevalenza della seconda se concorrente con la prima) (Cass. 7.4.2004, n. 6843).
La giurisprudenza ha chiarito che il carattere vicario delle mansioni svolte preclude il diritto del sostituto all’inquadramento nella qualifica superiore del sostituito, e lo stesso diritto alla maggiore retribuzione per il periodo della sostituzione, sia quando la sostituzione non abbia riguardato mansioni proprie della qualifica rivendicata, sia quando le mansioni proprie della qualifica del sostituto comprendano compiti di sostituzione di dipendenti di grado più elevato (Cass. 7.3.2006, n. 4842).
In merito alla maturazione del periodo necessario ai fini del riconoscimento va precisato che: – l’assegnazione a mansioni superiori deve durare ininterrottamente per tutto il periodo fissato dalla contrattazione collettiva o dalla legge; non è possibile cumulare distinte e reiterate assegnazioni provvisorie di breve periodo, a meno che le stesse non abbiano assunto particolare frequenza e sistematicità. Si segnala, da ultimo, Cass. 23.4.2007, n. 9550, secondo cui la reiterata assegnazione a mansioni superiori per periodi inferiori, singolarmente considerati, al termine previsto dall’art. 2103 cod. civ., ma superiori per cumulo di più di esse, può rivelare l’intento del datore di lavoro meramente elusivo della disposizione finalizzata alla c.d. promozione automatica, quando non sussista contemporaneamente la prova, il cui onere è a carico dello stesso datore di lavoro, di aver fatto ricorso a tali modalità nella gestione delle assegnazioni provvisorie per assicurare la vacanza del posto da coprire obbligatoriamente per il tramite della procedura concorsuale o selettiva, e per il periodo necessario alla definizione di essa (Cass. 22.5.2007, n. 11850);
– va escluso il periodo svolto per assolvere al servizio militare;
– sono esclusi i periodi di ferie e malattia che hanno effetto sospensivo con la possibilità di sommare le frazioni temporali anteriori e successive alla pausa feriale caratterizzate dallo svolgimento di mansioni superiori;
– sono compresi i riposi settimanali ed i riposi compensativi, restando irrilevante per questi ultimi la possibilità di monetizzazione (Cass. 3.2.2004, n. 1983).

Prescrizione del diritto
Il diritto all’inquadramento nella qualifica superiore per effetto dello svolgimento delle corrispondenti mansioni si prescrive in dieci anni, decorrenti anche in costanza del rapporto di lavoro (per precisazioni cfr. Cass. 1°.6.2006, n. 13046; sull’ineseguibilità in forma specifica delle sentenze che accertano il diritto del lavoratore alla superiore qualifica e condannano il datore di lavoro all’attribuzione della stessa, cfr. Cass. 17.6.2004, n. 11364).

Assegnazione in sostituzione di lavoratore assente
L’art. 2103 cod. civ. esclude dal meccanismo di promozione automatica per decorso del periodo massimo stabilito i periodi in cui l’assegnazione a mansioni superiori ha avuto luogo per sostituzione di altro lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto.
La giurisprudenza ritiene che tale condizione ostativa si verifica, oltre che nei casi previsti dagli artt. 2110 e 2111 cod. civ. (infortunio, malattia, maternità, servizio militare) e in caso di ferie, anche per le aspettative di cui all’art. 31, L. n. 300/1970 (lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali nazionali o provinciali) e quelle concesse per motivi familiari. Più in generale vanno considerate tutte le previsioni contrattuali collettive che contemplino ipotesi di temporanea assenza del lavoratore comportanti la necessità di sostituzione provvisoria, sempreché non debba ravvisarsi nella condotta del datore di lavoro un intento fraudolento inteso ad eludere il meccanismo di promozione automatica prevista dalla legge a favore del sostituto (Cass. 16.12.1999, n. 14154).
Il diritto al trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori svolte è garantito dall’art. 2103 cod. civ. in modo autonomo dal conseguimento della qualifica superiore e deve quindi essere riconosciuto anche se, per il ricorso della condizione ostativa prevista dal citato art. 2103, tale qualifica non venga attribuita all’interessato (Cass. 12.3.2004, n. 5137).

 


(per maggiori approfondimenti vedi Manuale lavoro, Novecento Media)

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