Ovvero il fascino rischioso del crowdsourcing.
Riccardo Staglianò su Repubblica ha portato alla luce il tema-problema del crowdsourcing. Pare l’ennesima derivazione dell’outsourcing, e in effetti un po’ lo è.
Solo che non è nuova.
Scopo del crowdsourcing è di introdurre gli stilemi del “low cost” anche nella fase creativa della produzione, di un bene o un servizio.
Che, tradotto in soldoni: io, imprenditore, non ho un’idea, me la compro, possibilmente a basso prezzo.
Poi, se tradotta bene in pratica quell’idea si traduce in un buon fatturato, meglio per me, e peggio per chi l’ha avuta. I margini sono sicuri, dato che i costi di produzione dell’idea-progetto sono bassi.
Il crowdsourcing rende la pratica sistematizzata, con il ricorso costante alla comunità delle idee che sono fuori all’azienda. Il che significa taglio dei costi per i progetti all’interno. Complice della pratica è il Web, che consente a un singolo (in questo caso l’azienda) di entrare in contatto a costo zero con una moltitudine (i creativi sparsi per il mondo).
Pratica non nuova, si diceva, e nemmeno redditizia a lungo termine per economie come la nostra.
Cominciamo da qua: ormai anche il più strenuo sostenitore della globalizzazione selvaggia riconosce che il valore azienda italiano è quello dell’idea, della creatività. Tutto il resto è contorno, con buona pace di Epifani & co.
Estrapolare dall’azienda anche il valore idea, nel nostro caso, significherebbe levare di mezzo il concetto stesso su cui si basa la sua esistenza.
La pratica, però, non è nemmeno nuova. Tante aziende, anche le più piccole, hanno da sempre intrattenuto rapporti con “ideografi”, collaboratori fidati le cui idee trovano ascolto.
La differenza fra la “vecchia” tipologia di sviluppo del prodotto e del lavoro con il crowdsourcing la fa proprio quella parola “fidati”, che presuppone che esista un rapporto, una conoscenza, una frequentazione.
E da che mondo è questo, il lavoro è fatto di presenza, non di assenza, che per definizione è regina del torto.





