I finanziamenti tra i freni dell’open source

La profonda crisi economica in atto può essere l’occasione per vedere nell’Ict, e in particolare nell’open source, un modello per sostenere l’innovazione. Però, mentre altre nazioni hanno individuato l’Ict come settore strategico per lo sviluppo attual …

La profonda crisi economica in atto può essere l’occasione per vedere nell’Ict, e in particolare nell’open source, un modello per sostenere l’innovazione. Però, mentre altre nazioni hanno individuato l’Ict come settore strategico per lo sviluppo attuale e futuro dell’economia, in Italia le cose non stanno così. Queste alcune delle prime considerazioni emerse durante la seconda edizione di MiOpen Workshop 2008 che si è tenuta recentemente a Milano. A frenare l’evoluzione verso un mercato più maturo concorre la difficoltà nel trovare finanziamenti per la realizzazione di un prodotto immateriale come il software. A questo va aggiunto che nell’istruttoria per un finanziamento, il lavoro e la competenza nell’ambito della programmazione sono più difficili da valutare. È anche vero che i software, pur essendo prodotti da industrie, rappresentano un lavoro di tipo artigianale, sviluppato “a mano” da persone specializzate, attraverso un processo che non è automatizzabile, se non in parte. Eppure, prima dell’anno scorso non esisteva un riconoscimento di categoria per l’Ict e i contratti d’assunzione per il personale informatico erano assimilati a quelli del mondo commerciale e metalmeccanico, mentre oggi afferiscono a quelli della Comunicazione e dell’Artigianato. «Chiedere un fondo per lo sviluppo del software è praticamente impossibile – ha sottolineato Domenico Zambetti, assessore Artigianato e Servizi Regione Lombardia -. Mancano le capacità e l’abitudine a valutare questo genere d’investimenti. Ed è proprio quest’aspetto a togliere la capacità d’iniziativa delle aziende. Sull’open source c’è tanto fermento, ma non usufruendo degli introiti legati alle licenze d’uso, questa strada è piuttosto critica». La domanda fondamentale è allora la seguente: il Sistema Paese ha bisogno dell’open source? Prima di cercare una risposta, è importante sapere che in altri paesi europei, come la Francia, lo stato interviene con una politica di sostegno diretto o per mezzo della Pa, mentre in Germania e Spagna si è assistito all’intervento di venture capital che hanno investito in progetti open source, scommettendo su ritorni a lungo termine.

Considerando come le aziende italiane operino in una situazione di cronica scarsità di risorse, il modello open source consente un’ottimizzazione delle stesse attraverso una messa a fattor comune. Applicando le modalità della collaboration all’Os, le realtà più piccole potrebbero acquisire prodotti e tecnologie complesse, investendo inizialmente solo nella conoscenza e risparmiando decisamente sullo sviluppo. Un approccio di tipo collaborativo può concretamente contribuire a superare l’eccessiva e storica frammentazione del mercato, inaugurando nuove logiche di scala che possono portare a una condivisione delle conoscenze e delle risorse che potrà dare una grossa marcia al nostro paese. Questo pur sapendo che un ostacolo alla collaboration è l’innata regionalità italiana, a volte più propensa a cercare partnership oltre confine. Uno smaccato invito alle Pmi che, come ha sottolineato Zambetti, «devono riflettere sul fatto che la competizione e lo scontro possono anche trasformarsi in un confronto utile». Il modello open source, infatti, può far sorgere potenziali standard “dal basso”, cioè dal mercato, che diventano accettabili anche su larga scala in quanto più autonomi ed economici.

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