I casi di successo vanno valorizzati meglio

L’idea di creare una realtà come Cefriel venne per prima a una donna, Marisa Bellisario, la brillante manager di Olivetti e Italtel (prematuramente scomparsa nel 1988), che fu affiancata in questa iniziativa da personaggi di spicco come Francesco Caras …

L’idea di creare una realtà come Cefriel venne per prima a una donna, Marisa Bellisario, la brillante manager di Olivetti e Italtel (prematuramente scomparsa nel 1988), che fu affiancata in questa iniziativa da personaggi di spicco come Francesco Carassa, Maurizio Decina, Ottorino Beltrami (allora presidente di Assolombarda) ed Emilio Massa.

La realtà consortile (che vede la partecipazione di Politecnico di Milano, Università degli Studi di Milano e quella di Milano-Bicocca, oltre a 15 primarie aziende dell’Ict) iniziò a operare nell’ottobre del 1988. Già allora, tra i primi assunti c’era Alfonso Fuggetta, che dal 2003 ne è Ceo and scientific director. «Allora la sede era nella vecchia Bicocca – racconta in questa intervista Fuggetta – una zona con ancora i palazzi fatiscenti della Pirelli, e noi eravamo in un vecchio stabile, al terzo piano, l’unico ristrutturato. Il fatto che mi sbalordì, appena arrivato, è che mi diedero un ufficio enorme, che aveva una bellissima vista sulla Grigna e sulle Alpi, in quanto non c’erano ancora costruzioni attorno».

Dopo vent’anni, come è evoluto il progetto di allora?

«Cefriel è cresciuto tantissimo. Agli inizi eravamo in 6/7 e abbiamo incominciato con il realizzare il master in Tecnologie dell’Informazione. Poi negli anni 90 abbiamo avviato dei progetti europei di ricerca e in seguito progetti per le imprese e la Pubblica amministrazione».

Dite di non avere fini di lucro, ma come vi finanziate?

«Ci autofinaziamo, in quanto non abbiamo contributi per il funzionamento dal pubblico a priori e tutti i ricavi ci vengono dal mercato: credo che sia l’unico centro di questo tipo che funziona in questo modo. A oggi abbiamo 140 dipendenti, per la maggior parte a tempo indeterminato, affiancati da 30 docenti e nessun precario. Siamo un’azienda a tutti gli effetti: il 2007 lo abbiamo chiuso con 10 milioni di euro di fatturato e un piccolo utile che abbiamo messo a riserva, il nostro patrimonio è di circa 1,5 milioni, per cui siamo finanziariamente solidi. Mensilmente facciamo controllo e avanzamento di flusso di cassa e di conto economico e abbiamo il controllo di progetto e di commessa come le migliori società d’ingegneria, proprio perché dobbiamo stare attenti a rispettare tempi e vincoli delle aziende».

Dal suo osservatorio come vede l’innovazione in Italia? Siamo realmente così arretrati come tutte le statistiche europee ci dipingono?

«In Italia ci sono tali differenze tra le diverse realtà industriali e anche “buchi” nei dati rilevati, che non ha senso parlare di medie. E questo in tutti i campi, comprese le università e i dipartimenti, in quanto abbiamo realtà di assoluta eccellenza che non vengono valorizzate come meritano. Spesso nelle classifiche internazionali non brilliamo per via delle infrastrutture, perché per esempio non disponiamo di residenze da offrire agli studenti, ma se andiamo a guardare la qualità scientifica dei lavori, il Politecnico di Milano, per esempio, raggiunge valutazioni di eccellenza anche a livello mondiale. Invece dai giornali traspare sempre che le università non sono adeguate, che ci sono problemi di baronia, per cui si innesca un meccanismo negativo presso l’opinione pubblica che non ci giova. Lo stesso discorso si può fare con le imprese, in quanto ogni giorno scopriamo realtà di primo piano a livello mondiale. Per esempio, sono stato in Dainese e sono rimasto sbalordito dalla loro passione incredibile per l’eccellenza. Dal punto di vista del processo, Dainese sta usando l’Ict in maniera straordinaria, ha un magazzino robotizzato molto efficiente, sta facendo molta ricerca sul prodotto, come il giubbotto per moto con l’airbag. Credo bisognerebbe raccontare e valorizzare maggiormente queste storie di successo per iniziare a innescare un po’ di positività nel Sistema Paese».

Tutti gli analisti affermano che le imprese non possono più esimersi dall’introdurre il Web 2.0, ma a parte che molti It manager non sembrano propensi a fare questo passo, perché per loro aumenta la complessità, a partire dal fronte sicurezza, non trova che sia sempre più difficile reperire informazioni corrette?

«Noi per primi usiamo il Web 2.0, sulla nostra intranet abbiamo dei blog interni che consentono alle nostre persone di dialogare tra loro. Internet apre delle opportunità straordinarie, ha creato un mondo connesso dando la possibilità di scambiarsi informazioni, di far crescere anche una maggior consapevolezza su tanti temi, dal sociale al politico, allo scambio di informazioni su tecnologie che prima erano impensabili. C’è, forse, un problema per l’utente di acquisire informazioni in maniera mirata. Io, per esempio, su molti siti non vado più e mi sono selezionato i miei canali con le notizie che mi interessano. Un aiuto a questo problema viene dal Web semantico, che peraltro per noi è un’area di ricerca. Ma quello che serve è una consapevolezza nuova del Web, in quanto è chiaro che è l’uso che se ne fa, e non lo strumento in sé, a essere positivo o negativo. Internet per altro è un mezzo talmente potente e pervasivo che gli effetti del suo uso hanno una portata esponenzialmente più impattante rispetto a qualsiasi altro strumento».

Cosa ne pensa di chi allerta che Internet rischierà di collassare nel 2011?

«Che un’infrastruttura così vitale come Internet abbia bisogno di essere estesa, supportata e arricchita è ovvio. Però se uno guarda alla storia di questi anni, si accorge che altri crolli erano stati già annunciati e poi non si sono verificati. In realtà, le fibre ottiche hanno avuto negli ultimi tempi uno sviluppo tecnologico talmente evoluto, che oggi, in molti casi, piuttosto il problema è che sono scariche. Il doppino telefonico era dato per morto, mentre adesso invece arriviamo, con l’Adsl 2+, a 20 megabit al secondo di download e il Vdsl promette di andare ancora oltre. Di recente sono rimasto stupefatto perché ho letto che sono state fatte le prime prove di una tecnologia wireless di telefonia cellulare da 250 megabit al secondo. Noi pensavamo che il cellulare fosse morto e che dopo il 3G non si andasse da nessuna parte, invece stanno uscendo nuove tecnologie come Hspa, Lte… il rischio è che WiMax, che sembrava l’astro nascente, muoia giovane. Questo dimostra che le tecnologie stanno evolvendo a una tale velocità per cui Internet può correre il rischio che si saturi, ma non è detto. Il messaggio da dare è che si tratta di una infrastruttura critica, che sta crescendo come utilizzi, e sulla quale dovranno essere fatti degli investimenti, necessari a farla crescere».

E chi li deve fare gli investimenti?

«Credo sia necessaria una visione molto pragmatica della situazione e nelle reti di Tlc è necessario creare un mercato che veda la convergenza di investimenti pubblici e privati in un ambiente aperto e competitivo. La risposta è la separazione strutturale della rete, perché così facendo la nuova società che la gestisce può anche essere partecipata dal pubblico, così come è stato fatto a Singapore, dove l’azionista pubblico ci mette i soldi, ha un ritorno e quella rete viene offerta a tutti gli operatori che la vogliono utilizzare. È chiaro che non è un processo così semplice, anche perché si tratta di una cosa nuova, che va pensata e capita, c’è tutto un problema di nuove regole che devono essere definite, in quanto il tutto è legato a un assetto del mondo delle telecomunicazioni che risale a venti anni fa. Il cambiamento tecnologico ha indotto anche un cambiamento del mercato e quindi vanno ripensate le regole anche dal punto di vista delle normative, del controllo e della gestione dell’anti-trust. È un tema importante, sul quale peraltro stanno discutendo tutti i grandi operatori. Per cui, in sintesi, sul fronte investimenti, vedo tre alternative: una è alla tedesca, che prevede di lasciare l’incumbent così come è, dandogli un vantaggio da vacatio regulatoria, ma secondo me questo non è accettabile. La seconda soluzione è una via intermedia all’inglese, con separazione funzionale, che già ha dei vantaggi, ma che impedisce l’investimento nel capitale dell’azienda. Infine la terza, che ritengo sia la strada da percorrere, è la separazione strutturale della rete, che effettivamente offre la possibilità di attirare investimenti, ma questa crea anche un modello nuovo che va attentamente pensato».

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