
Ovvero, lavorare in un call center. Visto da dentro.
Escludiamo dai nostri discorsi qualsiasi tema monetario, giacché noi siamo
effimeri e non ci interessa il vil denaro.
Ma, o noi viviamo in un altro
mondo, o qui c’è qualcuno che non la racconta giusta.
Parlando con amici,
semplici conoscenti, persone incontrate per caso in un bar, per lo più giovani
(ma non solo) e quindi al primo precario impiego, che prestano la loro opera in
un call center, ne ricaviamo l’idea che questi luoghi di lavoro siano
l’equivalente odierno delle fabbriche di Manchester dopo l’invenzione del
vapore.
Luoghi, cioè, che nell’interior design e quanto a impiego degli
spazi sono tutt’altro che ispirati da logiche di feng shui, con turni di lavoro
ben lontani da esperienze scandinave, e maoisticamente con una gran confusione
sotto il tetto.
Poi guardi la tv e vedi gli spot dei nuovi servizi 12 a
pagamento, di quelli gialli, bianchi, verdi, a pois, a losanghe, e ne percepisci
invece un mondo dorato, di persone sorridenti, che sembrano appena uscite da un
centro benessere.
Discorso tariffe a parte, che, ribadiamo, qui non
trattiamo, se i racconti in presa diretta che ci fa chi ci lavora dentro, qui ci
sarebbero gli estremi della pubblicità ingannevole.
Si dice che i diritti,
oggi, siano fuori moda, specie quelli dei lavoratori.
E un salto in
Australia conferma la tendenza a tutte le latitudini. Anche il diritto a sapere,
però, non è messo bene.
Telefonare per credere.
Anzi, la prossima volta
che un operatore di call center vi chiama a casa per una promozione,
chiedetegli: “come va da quelle parti?”.