Come le Pmi possono andare in Cina

Un convegno spiega quali sono i passi necessari per approcciare nel modo corretto il mercato cinese.

È di pochi giorni fa la notizia che il parlamento cinese ha introdotto il
concetto di proprietà privata (esclusa la terra che resta di proprietà dello
Stato) e ha cancellato, a partire dal 2008, gli sgravi fiscali per gli
investitori stranieri, uniformando di fatto l’aliquota al 25% dei profitti sia
per le imprese cinesi sia per quelle straniere o a capitale misto. Questo non
significa che la Cina non rappresenti più un’opportunità per gli investitori, ma
senza dubbio che occorre effettuare valutazioni attente.


Di questo e di altro ancora si è discusso al convegno “Cina 2007: nuovi sviluppi di un mercato sempre più in evoluzione” organizzato da Pmi Brianza e dallo studio Rodl&Partner a Monza.

Pmi Brianza è un’associazione
in grande espansione, nata alla fine del 2004 ma che rappresenta già più di 320
piccole e medie aziende. Agli interventi introduttivi del Presidente Giovanni
Sala e dell’Assessore delegato alla Provincia di Monza e Brianza, entrambi
convinti che la Cina possa essere una risorsa di notevole interesse anche per le
piccole e medie aziende italiane tipicamente versate nell’ambientarsi anche in
terra straniera, hanno fatto seguito testimonianze su cosa significhi investire
oggi in Cina e con quali modalità sia possibile farlo.


Più ancora che in un qualsiasi altro paese straniero, in Cina si va solo se si hanno le idee chiare su cosa si vuole fare. Se si è interessati a creare una società commerciale o anche di produzione, bisogna agire con calma, un passo alla volta. Si può partire, per esempio, con un Representative Office, che permette l’insediamento in loco di un ufficio dotato di proprio Staff ed è la soluzione ideale per le società di consulenza, con l’unico vincolo che per l’assunzione di personale locale vi è l’obbligo di rivolgersi alle agenzie specializzate (es. Fesco).


In seguito, se si vuole passare alla produzione, o comunque se si vuole
realizzare una partnership che includa anche la responsabilità limitata, è
meglio passare a un Wfoe
(Wholly foreign owned enterprise), società di diritto cinese con il 100% di investimento straniero e con un minimo capitale sociale di partenza di circa centomila euro (questa almeno è la prassi).
Naturalmente sono possibili le joint venture,
che possono essere Equity Jv – con responsabilità limitata,
profitti e perdite in base alla contribuzione, durata dai 10 ai 20 anni e con
tetto minimo di partecipazione straniera al 25% – oppure Contractual
Jv
, ovvero con profitti e perdite determinati da quanto scritto sul
contratto, senza minima o massima durata né parametri di percentuale straniera.


Lo studio Rodl&Partner, consulente legale specializzato
negli investimenti nella zona Asia e Pacific, che per il convegno ha prodotto i
dati e le informazioni sopra riportate, raccomanda con forza che, al di la dei
singoli casi da analizzarsi di volta in volta, si prevedano accurate due
diligence
a carico dei potenziali partner locali, nonché un altrettanto
accurato studio di fattibilità. Anche perché in Cina, una volta prodotte le
carte per la costituzione di un’impresa, sono sempre e solo le autorità che
possono “elargire” la Business license, cioè l’autorizzazione a fare affari in
Cina. Senza licenza, si perdono anche tutti gli investimenti già fatti.


Un primo valido aiuto a chi desidera sondare il
terreno per un eventuale investimento è fornito anche dalla Camera del Commercio
Italo Cinese (www.china-italy.it) con
sede in Italia e in Cina e con personale misto. La consulenza offerta copre
dalle prime esigenze (visto di ingresso, interprete, prenotazione hotel, ecc.)
fino alla progettazione e costituzione di un’azienda italiana in terra cinese (e
viceversa), e alla gestione dei contenziosi.


Infine, quali sono le regole pratiche e
comportamentali da tenere bene in mente se si desidera provare ad accedere al
mercato cinese? Lo racconta Mario Carniglia, amministratore delegato di
Otim (Organizzazione trasporti internazionali e marittimi), in
Cina con la sua azienda fin dalla metà degli anni Settanta: “niente fretta,
ma non mostrare nemmeno di avere timori perché altrimenti sono loro a metterti
pressione”
. E ancora: “trovare un buon partner legale e non
dimenticarsi mai che in Cina vige la cultura della negoziazione. Una
negoziazione dalla quale nessuno esce vincitore o vinto, e dove l’importante è
che le parti coinvolte salvino la faccia”.

Che tradotto per noi occidentali significa riuscire abbastanza spesso a portare a casa risultati soddisfacenti anche dopo eventuali contenziosi.

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