Collaborare in Rete per migliorare il business

Evoluzione della filosofia customer centrica, che ha visto affermarsi logiche di Crm avanzato, l’Enterprise 2.0 lancia nuovi servizi fino a ieri inimmaginabili

Con l’avvento dei Web service e del social networking l’utente consumatore può scegliere tra diverse modalità di fruizione e di personalizzazione, trovando una nuova dimensione interattiva che gli permette di diventare a sua volta produttore di contenuti. Un fenomeno che può trasformare l’utente in un vero e proprio broker, in quanto capace di interpretare e di promuovere, generando un meccanismo di attrazione spontanea che le aziende devono imparare a intercettare e capitalizzare per rilanciare il business. Le tecnologie 2.0 hanno portato anche un cambiamento nei paradigmi di costruzione dei servizi on line, trasformando modi e ruoli degli operatori di settore.

«Analogamente a quanto è avvenuto con il passaggio dall’era artigianale a quella industriale – spiega Filippo Rizzante, executive partner Reply e responsabile dell’offerta Web 2.0 -, si sta passando da un puro meccanismo di bit a un nuovo criterio di produzione, basato sulla capacità di assemblare servizi e di rendere disponibile un self service a consumo, impattando sull’ecosistema aziendale costituito da clienti, dipendenti, partner e fornitori». Formule di cloud computing in modalità a consumo o self service, come Amazon, sono esemplari rispetto a questa evoluzione delle logiche di servizio. Affiancando i principali gruppi europei appartenenti a telco & media, industria & servizi, banche & assicurazioni e Pa nella definizione e nello sviluppo di modelli di business abilitati dai paradigmi del Web 2.0 e della convergenza, Reply ha maturato una valida esperienza sulle dinamiche del settore, che approfondiamo in questa intervista.

Perché l’Enterprise 2.0 è strategico per le aziende?

«Perché si tratta di cogliere il nuovo step evolutivo di Internet. Parlare di 2.0, infatti, significa essere coscienti che oggi non è pensabile una progettazione Web senza includere questo tipo di tecnologie. Basta fotografare i servizi online com’erano nel 2000 e come sono invece oggi: infatti presentano differenti modalità di produzione e di pagamento e tutto, dal database allo storage, sta diventando “as a service”, secondo criteri di pay per use. È indubbio che il carattere di partecipazione sia un elemento distintivo del Web rispetto al passato, ma questo è solo uno degli aspetti: il fruitore di informazioni o di servizi, è diventato esso stesso un creatore di contenuti e, in qualche modo, di servizi. Capire questa trasformazione, significa capire le potenzialità e le opportunità legate al Web, per sfruttarlo al meglio rispetto ai competitor».

Il mercato è pronto per recepire questa nuova dinamica?

«Sì, pur non essendoci la stessa consapevolezza in tutte le aziende. Il dialogo trasparente e partecipativo a livello aziendale viene portato avanti soprattutto nell’ecosistema interno all’organizzazione e solo in un secondo momento sarà esteso al mercato esterno, ovvero alla clientela finale. Questo perché da un lato le aziende temono il dialogo diretto con la base e, dall’altro, sanno come sia difficile creare e gestire comunità verticali che funzionino. Più che una questione di strumenti e di tecnologia, le criticità sono a livello organizzativo: per far vivere una community bisogna saper stimolare, movimentare, coinvolgere e moderare. Malgrado ciò, imprese e organizzazioni sanno che oggi è necessario stabilire un contatto diverso con i clienti per segmentare la base, ma anche per capire i potenziali prospect e indirizzare meglio la produzione. Il problema di molte aziende è che sono fortemente disintermediate, operando attraverso dealer che si occupano della vendita. Un caso per tutti? Fiat, per cui il Web è diventato uno strumento prezioso per ottenere in modo diretto informazioni sui livelli di gradimento da parte del consumatore finale, anche rispetto alla concorrenza. Questo vale per qualsiasi azienda e per qualsiasi settore, financing incluso. Le informazioni che la singola filiale intercetta, infatti, non sempre vengono veicolate in un flusso che arriva alla banca centrale, mentre una presa diretta delle informazioni sul cliente aiuta a ottimizzare le strategie».

Criticati per essere troppo rigidi o lenti e, in ogni caso, poco propensi a muoversi verso questo tipo di progetti, i Cio spesso sono scavalcati dal marketing nella realizzazione di progetti Web 2.0. Questo perché?

«Perché la struttura It, specie nelle grosse organizzazioni, nel tempo è stata spinta verso la parte più operazionale e manutentiva. Gestire questi nuovi concetti, invece, significa investire in termini di sperimentazione e d’innovazione. In ogni caso, dipende dall’It manager: realtà come Banca Intesa o Telecom Italia hanno nel Cio un vero e proprio promoter, un Chief innovation officer che capisce l’importanza di un’evoluzione dei servizi online. In altre realtà, invece, il capo dei sistemi informativi, magari non per colpa sua, è relegato a un ruolo di supervisore dei processi It. La trasformazione all’interno dell’azienda viene sponsorizzata da chi può ragionare oltre l’operatività di routine. Ecco perché sull’Enterprise 2.0 stanno dimostrandosi molto più ricettive e pronte le strutture marketing o quelle on demand».

Quali sono state le criticità riscontrate nella proposizione di progetti 2.0?

«C’è un forte interesse verso questi temi e una spiccata necessità ad avere soluzioni calate sulle specificità aziendali, il che presuppone da parte di consulenti e system integrator competenze precise e capacità analitiche in relazione ai vari contesti di mercato, dove le esigenze sono marcatamente diverse. La mia percezione è che attualmente ci sia una forte volontà di sperimentare sui clienti finali, malgrado le remore rispetto a un dialogo trasparente con una base utenti più libera e incondizionata. Altre problematiche sono di tipo interno, collegate al change management, che impone il networking di tipo collaborativo, o a livello di sistemi informativi e di infrastrutture, non ancora adeguati rispetto a una Rete di tipo 2.0, il che comporta per alcune aziende un salto generazionale troppo forte».

Ci sarebbero dunque sia la volontà che i budget per investire in questo tipo di sperimentazione?

«Sì. L’anno scorso abbiamo varato diversi progetti 2.0 interni alle aziende a livello di data mashup, social networking o data application. In certi casi non ci sono soltanto i budget ed esistono all’interno dei sistemi informativi o nel marketing strutture dedicate che utilizzano questi meccanismi per migliorare la presenza sul Web o il rapporto con il cliente. Malgrado il periodo piuttosto difficile, l’Enterprise 2.0 viene vista come un’opportunità interessante».

>La notizia è positiva: per quanto il mercato sia concentrato sul contenimento dei costi, si è capito che l’investimento in questo tipo di evoluzione del Web ha una sua ragion d’essere. Se in termini economici il costo a livello di tecnologie è minimo, vivacizzare le community, stabilire strategie di coinvolgimento e animare il nuovo canale richiede comunque delle risorse…

«I progetti Web alla fine degli anni 90, ad esempio la costruzione di un portale, avevano costi in termini umani ed economici onerosi: anche a livello di produzione dei contenuti, mantenere un portale richiedeva risorse e la predisposizione di piattaforme software e infrastrutture particolari. Oggi per realizzare un portale gli ordini di grandezza economici sono assolutamente inferiori, anche se è vero che servono nuove strategie e prodotti per il community management».

C’è già chi parla di Web 3.0: come vede il futuro?

«Personalmente, non ritengo che il Web 2.0 sia il futuro né che abbia senso parlare di Web 3.0, in quanto molti dei paradigmi del 3.0 non hanno ancora senso per le aziende in termini di business. Tutto va riportato a un discorso di evoluzione dei servizi online rispetto allo stato attuale e di come vadano progettati i servizi web. Nella costruzione di un nuovo servizio, infatti, invece di partire da zero con il Web 2.0 è possibile realizzare un assemblato da una cernita tra i servizi esistenti, disponibili online e interconnessi attraverso interfacce pubbliche Api; piattaforme di mashup permettono, infatti, l’aggregazione di questi servizi per erogarne un terzo. Oggi le imprese devono concentrarsi su come costruire i propri sistemi rispetto al trend attuale, già tracciato da alcuni colossi appartenenti a settori più diversificati».

Al di là, ovviamente di un discorso dimensionale, rispetto agli Stati Uniti come ci comportiamo in Italia?

«I casi italiani non hanno niente da invidiare a quelli americani. Da noi quello che manca è un brand di riferimento nazionale nella costruzione dei servizi online, contrariamente agli Usa dove esistono una ventina di service provider che si relazionano a un bacino d’utenza che costituisce una rete di relazione su scala mondiale dai feed back molto consistenti».

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