Tra italian-english e ovvietà, quando la comunicazione è sintomo di crisi di contenuti.
20 maggio 2004 Chissà cosa direbbe Nanni Moretti. Lui che aveva
preso in giro i giornalisti con quel “Chi parla male pensa male” urlato
alla petulante cronista in Palombella rossa, troverebbe altro materiale
frequentando il mondo Ict.
Dove chi cambia lavoro lo fa sempre per
“affrontare una nuova sfida professionale”, che spesso si tramuta in
“challenge” da affrontare insieme a un team che per definizione è
“dinamico e motivato”.
Ma c’è dell’altro.
Se nel giornalismo un
po’ ossequioso di una volta il commissario di polizia era sempre
“solerte”, oggi la soluzione è rigorosamente “facile” da
“implementare”, un verbo che nel Devoto Oli si è addirittura guadagnato
una spiegazione a parte che ne sottolinea l’appartenenza al linguaggio
informatico che l’ha mutuata dall’inglese to implement.
Poi ci sono le
aziende che invece di fare ricavi o fatturare “cubano”, le informazioni
che sempre di più devono essere “condivise” (ultimamente questo è molto
in voga) i “format” degli incontri, i concetti che inevitabilmente
devono essere “stressati” e il manager che non è più “fiducioso” ma
solo “confidente” e che come obiettivo ha quello di “crescere e
guadagnare quote di mercato” affermazione che deve essere fatta con l’aria
di chi sta rivelando ai giornalisti una vera notizia e non una banalità.
E
poi ci sono i giornalisti.
Che nelle loro domande riescono anche a citare
Hegel (Negroponte non tira più) oppure sparano insopportabili premesse nelle
quali, per arrivare a parlare del rapporto tra insegnanti e mondo It, raccontano
che con un programma Excel hanno calcolato il comportamento del vento durante
una importante battaglia fra Romani e Cartaginesi.
E che se quella volta al
posto di Annibale ci fosse stati loro i Cartaginesi ai Romani le avrebbero
suonate di brutto.
E la storia del mondo sarebbe cambiata.





