Lo sentiamo dire ormai da tempo che l’identificazione in radiofrequenza ha le carte in regola per sostituire il “vetusto” codice a barre nel tracciare merci, persone e componenti. Lo dicono tutti ma i fatti non confermano questi assunti. Perché? «La te …
Lo sentiamo dire ormai da tempo che l’identificazione in radiofrequenza ha le carte in regola per sostituire il “vetusto” codice a barre nel tracciare merci, persone e componenti. Lo dicono tutti ma i fatti non confermano questi assunti. Perché? «La tecnologia Rfid ha creato tanto entusiasmo – esordisce Pierfrancesco Manenti, Emea research director di Manufacturing Insights, una società di Idc -. Ha un enorme potenziale rispetto al codice a barre, soprattutto in virtù della capacità di lettura automatizzata e in tempo reale, che riduce al minimo il margine di errore. La maggior parte di quelli che dichiarano di aver avviato dei progetti si limita, in verità, a iniziative-pilota che non si sa quale futuro potranno avere». La progressiva esternalizzazione della produzione potrebbe, però, fare da scivolo a queste iniziative, finora relegate all’ottimizzazione della logistica interna. «Per supportare i nuovi modelli industriali, che privilegiano l’esternalizzazione di componenti del processo di lavorazione – gli fa eco Tullo Mosele, consigliere di Ailog, Associazione Italiana di Logistica e Supply Chain Management -, la logistica non può fare a meno di strumenti di identificazione automatica. Ma anche nel governo della movimentazione interna e dello stoccaggio questi strumenti sono fondamentali, specie per le realtà che si trovano a dover gestire un numero molto ampio di prodotti diversi. C’è necessità di presidiare al meglio flussi enormi di materiali e la tecnologia Rfid è, ormai, disponibile in modo pervasivo e a costi tutto sommato accessibili per una realtà media. Questo significa che, ad esempio, il taglio minimo di un progetto richiede un investimento che, tra tag, lettori, involucri per le etichette e software, si attesta intorno ai 50.000 euro. Il valore medio di un’iniziativa, comprensivo dell’aggiustamento dell’infrastruttura middleware, ovvero del collettore di informazioni che si generano dai sistemi Rfid, che rappresenta il costo principale del progetto, non scende al di sotto dei 100.000 euro». Costi non proprio a portata di Pmi, quindi, che tuttavia si giustificano con gli enormi benefici che la tecnologia apporta.
Se il codice a barre contiene, infatti, un solo numero identificativo che attesta la tipologia di oggetto e la sua provenienza, le etichette Rfid sono dotate di una memoria interna di diverse decine di byte, che può immagazzinare informazioni e dati utili relativi, ad esempio, al produttore o alle modalità più idonee per la conservazione del bene etichettato. «In alcuni settori, come nell’automotive, l’adozione dell’Rfid è dettata da esigenze di tracciatura della genealogia dei prodotti e gestione della garanzia – sottolinea l’analista -. Questo consente di ridurre i costi legati al richiamo dei veicoli o delle parti di ricambio difettose. Nelle altre industrie, invece, quelle avviate sono, nella maggior parte dei casi, applicazioni per l’ottimizzazione della logistica interna, allo scopo di favorire l’introduzione in azienda di filosofie produttive con forte attenzione alla qualità e ai tempi di produzione, come il just-in-time o il lean manufacturing. I costi dei tag si sono abbassati sensibilmente, ma non ancora così tanto da favorire una diffusione di massa delle tecnologie di identificazione in radiofrequenza. La strada più battuta, laddove le condizioni della produzione e dello stoccaggio lo consentono, è quella di impiegare tag che si possano asportare dal prodotto e riutilizzare». «Siccome il numero degli eventi da gestire lungo la filiera è enorme – sostiene Mosele – il responsabile della logistica deve verificare a monte, prima di parlare di identificazione automatica, la coerenza dell’ambiente di pianificazione. Questo significa investire in modo consistente sulle tecnologie di controllo e allerta sugli eventi. Deve trattarsi di sistemi di gestione per eccezioni delle anomalie, per non costituire un collo di bottiglia».
I sistemi di identificazione automatica devono, quindi, essere predisposti per rilevare un fenomeno, rimandare i dati rilevati a un repository centrale, atto a verificare se quello che sta accadendo è, effettivamente, quello che ci si aspettava e allertare il sistema sulle sole eccezioni, ovvero sui fenomeni che si discostano dalla normalità. Predisporre un ambiente di questo tipo assorbe la maggior parte degli investimenti It. E se il costo è sicuramente un freno inibitore alla diffusione su ampia scala dell’identificazione in radiofrequenza, questa tecnologia ha mostrato nel tempo anche altri limiti, di carattere fisico. I tag, infatti, per essere attivati (quindi rispondere), devono essere “sollecitati” (ovvero agitati). Questo significa che la loro efficacia è soggetta agli ostacoli della lunghezza delle onde radio che servono per attivarli. «Nel caso in cui sia l’operatore a spostarsi e la merce a star ferma – prosegue Mosele – la distanza di lettura, tipicamente di un palmare, è compresa tra gli 8 e i 20 centimetri. Qualora sia la merce a spostarsi e il lettore ad essere fisso, come avviene quando si utilizzano i varchi, la distanza di lettura aumenta a 70 centimentri per l’antenna singola, 1 metro e mezzo se si posizionano, una di fronte all’altra, due antenne». Altra grossa incognita tecnologica è data dall’interferenza di alcuni elementi con le onde radio «i principali sono l’acqua e i metalli – tiene a sottolineare Manenti -, che impediscono la lettura dei tag Rfid sui quali sono apposti». In realtà particolarmente complesse, che si trovano a dover gestire contemporaneamente centinaia o migliaia di prodotti, anche il sequenziamento delle etichette è un fattore da tenere in debito conto. «Una volta sollecitati, infatti – precisa Mosele -, i tag rispondono all’unisono. Con le tecnologie attuali è possibile cadenzare la lettura in sequenza di un massimo di 160 tag che vengano attivati contemporaneamente». Ma quello che più preoccupa è la mancanza di standard univoci in merito alla comunicazione in radiofrequenza. «Questo significa – conclude Manenti – che la tecnologia si dimostra piuttosto efficace nel governo dei processi interni, ma poco può sul fronte del presidio della filiera produttiva, perché ogni azienda utilizza ancora frequenze di lettura diverse».





