VMware Explore on Tour 2025: l’Europa diventa il laboratorio della sovranità digitale

C’è un paradosso alla base delle tappe europee (abbiamo partecipato a quella di Parigi) del VMware Explore on Tour 2025: una delle più grandi aziende tecnologiche americane, oggi sotto il controllo di Broadcom, sceglie l’Europa come teatro della propria rinascita strategica – e lo fa parlando di sovranità digitale, indipendenza infrastrutturale e fiducia normativa.

In un momento in cui l’Unione Europea cerca di emanciparsi dalla dipendenza tecnologica dagli hyperscaler statunitensi, VMware – marchio simbolo della virtualizzazione globale – decide di posizionarsi come abilitatore di infrastrutture sovrane, capaci di rispettare la legge, l’identità e la sicurezza dei singoli Paesi membri.

Un messaggio forte ma al tempo stesso sorprendente, provenendo da un’azienda che fino a pochi anni fa incarnava il paradigma della globalizzazione cloud. È chiaro che l’Europa non è più solo un mercato, ma un contesto politico e regolatorio che impone nuove regole del gioco. In questo scenario, Broadcom intuisce un’opportunità: diventare il fornitore globale che rende compatibile la potenza americana con la sovranità europea, un “ponte giuridico” tra innovazione e autonomia.

Dal controllo economico alla fiducia tecnologica

VMware è un’azienda in trasformazione. Dopo mesi di polemiche e proteste – la cosiddetta “VMexit” di clienti e partner – Broadcom si presenta non più come fornitore di licenze, ma come costruttore di fiducia.

Lo fa attraverso una piattaforma unica, VMware Cloud Foundation 9.0, che diventa il perno di un nuovo modello economico e politico: un cloud ibrido aperto, regolato, interoperabile, e soprattutto sotto controllo europeo quando necessario.

Dietro la semplificazione del listino e il nuovo modello a sottoscrizione, c’è una strategia più profonda: trasformare VMware in una possibile ossatura tecnica per il cloud europeo, quella che permette a operatori come OVHcloud, NumSpot o il Polo Strategico Nazionale di costruire servizi sovrani indipendenti dagli hyperscaler.

È la prima volta che un grande vendor statunitense riconosce – e valorizza – il principio di giurisdizione digitale come vantaggio competitivo. Da Parigi, Broadcom ha voluto mandare un messaggio preciso: non è necessario essere europei per difendere la sovranità europea, ma è indispensabile rispettarne le regole.

In questa apparente inversione dei ruoli – un’azienda americana che adotta il linguaggio della compliance, del diritto e della trasparenza – si intravede la nuova fase della geopolitica digitale: quella in cui la tecnologia non è più soltanto un mercato, ma un territorio da governare.

La sovranità può essere un modello industriale e la fiducia può diventare la nuova unità di misura della competitività. In questa partita, l’Europa – per la prima volta – non è più spettatrice. È diventata la piattaforma di sperimentazione del futuro cloud globale.

Broadcom dopo l’acquisizione: prezzi, fiducia e la ricostruzione del valore

Quando Broadcom ha completato, nel novembre 2023, l’acquisizione di VMware per 69 miliardi di dollari (di cui ben 8 di debito), l’intero mercato IT enterprise ha rapidamente compreso che si apriva una nuova fase.

L’operazione non era solo una delle più grandi nella storia del software, ma ha portato nel giro di un mese a un cambio di paradigma nel licensing, trasformando VMware da fornitore di licenze perpetue a piattaforma integrata in abbonamento. Ciò che a Palo Alto veniva descritto come “razionalizzazione del portafoglio”, in Europa è stato percepito come una rottura culturale. VMware era sinonimo di stabilità, compatibilità, continuità. Broadcom è apparsa, agli occhi di molti clienti, come un attore industriale dalla logica troppo finanziaria, poco empatica verso l’ecosistema. Da qui è nato un sentimento di smarrimento che nei mesi successivi si sarebbe trasformato in una vera crisi di fiducia.

A partire dall’inizio 2024, i forum tecnici e le community europee hanno iniziato a registrare un’ondata di reazioni: contratti perpetui cancellati, licenze convertite forzatamente in modelli subscription-only, programmi partner ridimensionati.

Molti hanno parlato apertamente di “VMexit”, un neologismo che riassumeva la fuga verso alternative come Proxmox, KVM, Nutanix AHV o Red Hat OpenShift.

System integrator di lunga data si sono trovati esclusi dai nuovi canali di vendita, i margini di rivendita si sono ridotti, e la dismissione del vecchio portale VMware Cloud Partner Program ha lasciato molti partner disorientati. L’impressione diffusa era che Broadcom stesse smantellando la cultura comunitaria che aveva reso VMware un riferimento mondiale in un ambito – quello dell’infrastruttura – dove la stabilità e la prevedibilità sono parte integrante del valore delle soluzioni adottate.

Ricostruire la fiducia

L’obiettivo di Mario Derba, Vice President Southern Europe Broadcom, e Claudia Angelelli, Senior Manager Italy, VMware by Broadcom, incontrati durante l’evento parigino, è preciso: ricostruire fiducia.

Derba adotta un tono diretto, quasi difensivo ma costruttivo: “Abbiamo ascoltato i clienti e compreso le loro preoccupazioni. L’obiettivo non è aumentare i costi, ma rendere prevedibili gli investimenti. Abbiamo eliminato ridondanze e reso trasparente ciò che prima era frammentato”.

Mario Derba, Vice President Southern Europe di Broadcom

Dalle sue parole emerge la volontà di spiegare la logica industriale dietro la ristrutturazione: non una politica di rincaro, ma una migrazione verso un modello unico e sostenibile, capace di fornire ai clienti una base tecnologica coerente.

Derba sottolinea come Broadcom abbia ridotto “oltre 9.000 SKU a un portafoglio essenziale, centrato su VMware Cloud Foundation”. Per anni i clienti hanno acquistato componenti separati – vSphere per il calcolo, vSAN per lo storage, NSX per la rete, Aria Operations per la gestione – spesso da integrare manualmente. Con VCF tutto è fuso in un’unica piattaforma software-defined, progettata per il cloud ibrido e per l’automazione completa.

Non parliamo più di prodotti, ma di ecosistemi,” spiega Claudia Angelelli. “Con VCF 9.0 il cliente paga per la piattaforma, non per il singolo modulo. Questo riduce i costi di gestione, i tempi di provisioning e la complessità operativa”. La suite include licenze, supporto e aggiornamenti in un unico contratto annuale. L’abbonamento sostituisce la licenza perpetua, ma introduce prevedibilità economica e governance semplificata, in alcuni casi con contratti pluriennali a prezzo fisso concordato.

In termini di TCO, Broadcom sostiene che i clienti vedranno una riduzione media del 15–20 % rispetto alla somma dei componenti acquistati separatamente.

Derba insiste su un concetto chiave: la nuova VMware non misura il proprio successo sul numero di licenze vendute, ma sul valore generato nel tempo: “Non stiamo spingendo un prodotto; stiamo costruendo una piattaforma di fiducia”. L’approccio value-based sostituisce il vecchio modello “pay per core” con formule di sottoscrizione scalabili. Invece di una miriade di listini, esistono tre tier principali – Essentials, Standard e Enterprise – che differiscono per funzionalità e capacità di automazione.

Angelelli precisa che “i clienti corporate ottengono un costo unitario inferiore rispetto alla somma dei moduli singoli, e le PMI possono accedere a funzioni avanzate prima riservate all’enterprise”. Il risultato, secondo Broadcom, è una maggiore democratizzazione dell’infrastruttura ibrida, unita a un supporto tecnico più solido e unificato.

Claudia Angelelli, Senior Manager Italy, VMware by Broadcom

Derba riconosce che “il cambiamento è stato rapido, forse troppo”, ma difende la necessità di una ristrutturazione profonda per “allineare la roadmap tecnologica alla sostenibilità economica”. “VMware non può restare un arcipelago di prodotti,” afferma. “Serve una piattaforma unica, altrimenti l’innovazione si disperde in compatibilità retroattive.”

Broadcom riconosce implicitamente che la comunicazione iniziale è stata inadeguata e che “la fiducia non si impone, si ricostruisce spiegando le scelte”.

L’intervento parigino è, in questo senso, il tentativo di voltare pagina, un modo per trasformare una crisi reputazionale in un’occasione di chiarimento.

Competitività: l’alternativa europea agli hyperscaler

Claudia Angelelli posiziona VCF 9.0 come alternativa continentale alle piattaforme dei grandi hyperscaler (AWS, Azure, Google Cloud). Stesse capacità di orchestrazione, automazione e sicurezza, ma con controllo locale e costi prevedibili. “VCF 9.0 offre feature parity con i grandi cloud, ma sotto giurisdizione europea e con un TCO inferiore,” spiega.

L’idea è costruire una base infrastrutturale su cui i provider regionali possano sviluppare cloud sovrani, mantenendo compatibilità con l’ecosistema globale. In questo modo Broadcom diventa non solo fornitore di tecnologia, ma abilitatore di sovranità industriale.

Il nuovo ecosistema: meno partner, più competenza

La strategia di canale è altrettanto trasformativa. Broadcom passa dal modello “many partners, few rules” a quello “fewer but better”. Il programma Broadcom Advantage Partner privilegia partner con competenze certificate in automazione, sicurezza e compliance. “Non cerchiamo distributori”, chiarisce Derba, “ma architetti di fiducia in grado di progettare infrastrutture complesse e sicure”.

Il rapporto con i partner diventa più stretto, ma anche più impegnativo: Broadcom fornisce strumenti di formazione avanzata e affianca i partner nella transizione verso i servizi gestiti (managed services).

È una mossa che mira a spostare la marginalità dalla rivendita al valore aggiunto, e a creare un ecosistema meno esteso ma più qualificato.

VCF 9.0 come ponte verso la fiducia

Nel discorso conclusivo del panel economico, Derba sintetizza l’intera filosofia Broadcom: “Il valore nasce quando il cliente sa cosa paga e per cosa. Con VCF abbiamo scelto la trasparenza come forma di fiducia.”

Il messaggio è rivolto al mercato europeo, dove il concetto di fiducia ha una valenza diversa rispetto agli Stati Uniti: non solo affidabilità tecnica, ma certezza contrattuale e conformità normativa.

Derba chiude richiamando il legame tra economia e giurisdizione: “La trasparenza dei costi è inutile se non c’è trasparenza sul controllo dei dati. Per questo VMware Cloud Foundation non è solo una piattaforma tecnologica, ma un progetto di fiducia”.

La ridefinizione del modello economico di VMware – più trasparente, sostenibile e centrato sul valore – non è soltanto un cambiamento di natura commerciale: è l’espressione di un principio di controllo, di governo consapevole della complessità tecnologica. Quando Derba e Angelelli parlano di semplificazione, di contratti pluriennali e di prevedibilità dei costi, stanno in realtà toccando il cuore di una questione più ampia: chi comanda davvero l’infrastruttura digitale su cui poggia l’economia europea.

Dal linguaggio dell’efficienza a quello della sovranità, il passo è breve ma decisivo.

Martin Hosken, Field CTO Cloud Partners, VCF Division Broadcom, e Olivier Breton, VP Sales France, Benelux & MEA OVHcloud, compiono un salto concettuale: “La sovranità non è dove metti i dati,” afferma Hosken, “ma chi può reclamarli e in base a quale legge.” In quella frase si condensa la tesi centrale: la giurisdizione è la nuova infrastruttura. La sovranità digitale non si costruisce con i firewall, ma con i confini legali.

Martin Hosken, Field CTO Cloud Partners, VCF Division Broadcom, e Olivier Breton, VP Sales France, Benelux & MEA OVHcloud – Ph Alexandre Alloul

Un continente sotto dipendenza giuridica

Oggi più del 70 % dei dati europei risiede in infrastrutture di provider americani. Il problema non è solo commerciale, ma strutturale: questi dati ricadono sotto la giurisdizione statunitense, anche quando sono fisicamente conservati in Europa.

Il nodo nasce nel 2018, con il Clarifying Lawful Overseas Use of Data Act – il Cloud Act – che autorizza le autorità federali USA a richiedere, con mandato giudiziario, dati custoditi da società americane ovunque nel mondo.

Questo principio di extraterritorialità legale si scontra frontalmente con il GDPR e con la sentenza Schrems II della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (2020), che ha invalidato il Privacy Shield proprio perché le leggi di sorveglianza USA non offrono garanzie equivalenti a quelle europee.

In pratica, un cittadino europeo non può impedire che i propri dati – ospitati su un cloud americano – vengano consegnati alle autorità statunitensi.

Hosken lo ha definito “un paradosso di sovranità”: l’Europa ha creato la normativa più avanzata del mondo in materia di privacy, ma ne delega l’infrastruttura a soggetti giuridicamente estranei.

Il caso Microsoft al Senato francese: la prova pubblica

Per illustrare concretamente questo paradosso, Hosken ha citato un episodio chiave: l’audizione di Marc Mossé, direttore legale e affari pubblici di Microsoft Europa, davanti alla Commission d’enquête du Sénat français sur la souveraineté numérique.

Il dialogo è stato rivelatore. Alla domanda del senatore: “Come potete garantire, con prove concrete, che i dati delle amministrazioni pubbliche francesi gestiti tramite i contratti UGAP non saranno mai trasmessi alle autorità americane in caso di ingiunzione?”, il legale di Microsoft risponde: “Dal punto di vista giuridico ci impegniamo contrattualmente con i nostri clienti, anche nel settore pubblico, a opporci a qualsiasi richiesta non fondata. Abbiamo messo in atto un sistema molto rigoroso, avviato già durante l’amministrazione Obama, che ci consente di contestare legalmente le richieste e di ottenere limitazioni precise dal governo americano. Pubblicando due volte l’anno i nostri rapporti di trasparenza, possiamo affermare che negli ultimi tre anni non vi è stata alcuna richiesta riguardante aziende europee”.

Il senatore incalza: “Nel caso di un’ingiunzione fondata, siete obbligati a fornire i dati?” La risposta del legale è inequivocabile: “Se la conclusione del processo che ho descritto è che siamo obbligati a consegnarli, li consegneremo”.

Quelle parole – “li consegneremo” – hanno avuto un effetto politico dirompente: per la prima volta, un rappresentante di una big tech americana ha ammesso pubblicamente che la sovranità dei dati europei può cedere davanti al diritto statunitense.

Quella frase ha segnato una svolta nella consapevolezza politica. Da quel momento, la sovranità digitale non è più stata percepita come un tema tecnico, ma come una questione di diritto internazionale”, ha commentato Breton.

La risposta dell’Unione non si è fatta attendere: il GAIA-X Framework, nato nel 2020, ha definito criteri di trasparenza, interoperabilità e residenza giuridica; l’European Cybersecurity Certification Scheme for Cloud Services (EUCS) dell’ENISA prevede livelli di conformità basati sulla control jurisdiction; la Francia, con SecNumCloud 3.2, ha introdotto il concetto di cloud de confiance: infrastrutture fisicamente e giuridicamente europee.

L’alleanza Broadcom-OVHcloud: sovranità come collaborazione

Hosken ha descritto Broadcom come “fornitore di libertà tecnologica”: “Non vendiamo sovranità, ma diamo ai clienti gli strumenti per esercitarla”.

La partnership con OVHcloud consente alle organizzazioni europee di utilizzare la piattaforma VMware Cloud Foundation 9.0 (VCF 9.0) in un contesto totalmente conforme alle leggi europee. OVHcloud – certificata SecNumCloud, soggetta a diritto francese, con personale e governance esclusivamente UE – garantisce che nessun attore extra-europeo possa imporre accesso ai dati.

Breton ha aggiunto: “La nostra missione è fornire un cloud competitivo, aperto e sovrano. Non vogliamo un’Europa che rinunci alla performance in nome della sicurezza, ma una sicurezza che generi competitività.”

VMware Cloud Foundation 9.0: architettura della fiducia

VCF 9.0 rappresenta l’evoluzione di vent’anni di ingegneria VMware in una piattaforma unificata e policy-driven, che integra tutti i componenti fondamentali del cloud moderno.

  • Elementi chiave: Hypervisor vSphere 8 e vSAN ESA per la virtualizzazione e lo storage distribuito;
  • NSX 4.1 per la micro-segmentazione e la sicurezza east-west;
  • Aria Operations per il monitoraggio predittivo e la governance automatica;
  • Private AI Foundation per l’esecuzione locale di Large Language Model, in conformità GDPR.

Tutto orchestrato da un management plane centralizzato, che permette di gestire ambienti multi-tenant con policy di sicurezza, logging e auditing integrati. Hosken lo definisce “il sistema operativo della sovranità europea”: un’infrastruttura neutrale, pronta a essere localizzata sotto qualsiasi giurisdizione UE.

La modalità disconnected: la sovranità assoluta

VCF 9.0 può funzionare nella modalità disconnected, pensata per contesti in cui la continuità operativa e la sicurezza nazionale coincidono. Difesa, intelligence, energia, infrastrutture critiche: ambienti in cui anche la telemetria è considerata informazione sensibile.

In modalità disconnected, il cloud entra in uno stato di autarchia funzionale: i nodi restano attivi senza connessione Internet; le licenze sono validate da un’autorità locale (license proxy air-gapped); gli aggiornamenti vengono distribuiti come bundle firmati, verificabili con chiavi PGP; la telemetria e i log rimangono confinati, esportabili solo manualmente; i backup avvengono in “clean room” isolate, con segmentazione NSX Layer 7; la catena di fiducia è certificata mediante hardware root of trust locale.

Hosken lo sintetizza così: “Essere sovrani significa poter continuare a operare anche quando tutto il resto si ferma. È la forma più pura di resilienza digitale”.

Dal punto di vista legale, la modalità disconnected offre la garanzia tecnica della separazione giuridica: l’impossibilità materiale di esfiltrare dati oltre i confini stabiliti. È, di fatto, la traduzione ingegneristica dell’articolo 45 del GDPR sulla trasferibilità dei dati.

Breton ha sottolineato che la sovranità non deve trasformarsi in protezionismo tecnologico: “Essere sovrani non significa isolarsi, ma poter scegliere. La libertà di cambiare provider è la prima garanzia di indipendenza”.

VCF 9.0 è costruita su API aperte e standard Kubernetes, supporta l’interconnessione multi-cloud e la portabilità dei workload tra ambienti pubblici, privati e sovrani. Questa interoperabilità nativa è la chiave di una sovranità dinamica, in grado di evitare sia il lock-in economico sia quello politico.

Dal diritto all’economia: la sovranità come politica industriale

La riflessione di Hosken e Breton trascende il piano tecnico: la sovranità dei dati è anche una strategia di sviluppo economico. Negli ultimi dieci anni, l’Europa ha esportato valore digitale verso gli USA attraverso l’outsourcing del cloud: servizi, competenze, capitale umano.

Riprendere il controllo dei dati significa trattenere innovazione, occupazione e know-how. Hosken ha parlato di “reindustrializzazione digitale”: “Ogni gigabyte che resta in Europa è una quota di valore che resta nell’economia europea.” Breton ha aggiunto che la fiducia – giuridica e tecnologica – è ormai una variabile macroeconomica, tanto quanto energia o capitale.

Un nuovo asse geopolitico del cloud

  • Dietro le parole dei due relatori si intravede una strategia continentale: Francia come laboratorio normativo, con SecNumCloud;
  • Germania come polo di GAIA-X e standardizzazione;
  • Italia come ponte mediterraneo, grazie al Polo Strategico Nazionale (PSN);
  • Spagna e Portogallo come hub energetici e data center neutral.

In questa geografia, Broadcom agisce come fornitore di sovranità tecnologica, mentre partner come OVHcloud incarnano la componente territoriale e legale. È il passaggio dal modello “as a service” al modello “as a sovereignty”.

Una frase può riassumere lo spirito del nuovo corso VMware: “La sovranità digitale non è isolamento, ma la libertà di scegliere – di connettersi, di migrare, di disconnettersi quando serve”. In quella libertà risiede la nuova indipendenza europea: giuridica, tecnologica, economica.

L’intelligenza artificiale privata: sovranità dei dati e accelerazione della ricerca

Chris Wolf, Field CTO AI & Cloud Strategy Broadcom, e Cédric Mangenot, CIO e AI Program Director dell’University of Luxembourg, hanno presentato una visione comune: l’AI come infrastruttura della fiducia, costruita dentro il perimetro legale e operativo del cliente. L’attenzione sull’orizzonte più avanzato della trasformazione cloud: l’intelligenza artificiale privata (Private AI).

Chris Wolf, Field CTO AI & Cloud Strategy Broadcom, e Cédric Mangenot, CIO e AI Program Director dell’University of Luxembourg – Ph Alexandre Alloul

Non più solo dati sovrani, ma algoritmi sovrani, capaci di apprendere, elaborare e generare conoscenza rimanendo entro i confini giuridici europei.

Private AI significa riportare il pensiero computazionale sotto controllo umano”, ha sintetizzato Wolf. “Non è un ritorno al passato, ma l’unico modo per costruire un futuro sostenibile”.

Cédric Mangenot ha raccontato l’esperienza dell’ateneo lussemburghese, tra i primi in Europa ad adottare una piattaforma Private AI su VMware Cloud Foundation.

Avevamo due priorità”, ha spiegato: “semplificare e garantire privacy. Volevamo un’AI utile, ma anche conforme, indipendente e verificabile”.

L’Università gestisce oltre 10.000 utenti, con dataset sensibili che spaziano dalla bioinformatica al diritto comparato.

Quando i modelli pubblici di AI hanno iniziato a porre problemi di tracciabilità e proprietà intellettuale, la direzione ha scelto la via dell’AI locale e sovrana: costruire un’infrastruttura di calcolo autonoma, all’interno del campus, basata su VMware Cloud Foundation 9.0 e Private AI Foundation.

Il risultato è un ecosistema che garantisce prestazioni paragonabili a quelle dei cloud pubblici, ma con governance e sicurezza pienamente europee.

Private AI: velocità, compliance e autonomia

Chris Wolf ha ribaltato un pregiudizio comune: la Private AI non è un ritorno alla lentezza, ma una forma di accelerazione controllata.

Molti dei nostri clienti scoprono che sviluppare in locale è più rapido che nel cloud”, ha detto. “Non serve chiedere permessi per i dati, non ci sono tempi morti per la compliance. Quando il dato resta tuo, l’AI diventa immediata”.

L’AI privata riduce i costi legati al trasferimento dei dataset, elimina i rischi di violazione normativa e consente una sperimentazione continua. È, di fatto, un modello di innovazione nativa nel perimetro legale.

Shadow AI: il nuovo rischio invisibile

Wolf ha poi lanciato un allarme: il pericolo non è solo tecnologico, ma organizzativo.

Il fenomeno dello Shadow AI – l’uso non autorizzato di modelli esterni da parte di dipendenti o team di sviluppo – sta emergendo come una delle minacce più gravi per la sicurezza dei dati aziendali.

Se lo Shadow IT era pericoloso, lo Shadow AI è devastante”, ha avvertito Wolf. “Basta un prompt in un tool non controllato per perdere segreti industriali”.

Broadcom risponde con un approccio DevSecOps esteso all’intelligenza: tutti i modelli vengono trattati come codice, archiviati in Harbor (il registro open source per container) e sottoposti a scansione, validazione e approvazione prima della messa in produzione.

È la trasformazione dell’AI in un processo governato e tracciabile, in cui ogni passaggio è verificabile a posteriori.

AI privata e TCO: metà dei costi, doppio del controllo

Sul piano economico, Wolf ha portato un dato concreto: le organizzazioni che adottano Private AI su VCF possono ridurre il TCO fino al 50% rispetto a soluzioni basate su cloud pubblici. “L’AI non è solo GPU”, ha spiegato, “è rete, memoria, orchestrazione, automazione. Noi ottimizziamo tutti questi strati, non solo il calcolo”.

Il segreto è nella capacità di VMware di bilanciare dinamicamente le risorse hardware, grazie al Distributed Resource Scheduler (DRS), che valuta priorità, carico e disponibilità per ogni job di addestramento o inferenza. È la stessa filosofia che vent’anni fa rese VMware sinonimo di efficienza nel data center: virtualizzare per rendere scalabile, governare per rendere sostenibile.

Heterogeneous AI: CPU, GPU e oltre

È su questo punto che Wolf ha introdotto il tema destinato a cambiare la prospettiva dell’AI enterprise: la Heterogeneous AI, ovvero l’intelligenza artificiale costruita su risorse di calcolo eterogenee. “L’AI non vive solo di GPU; molti workload, specialmente quelli di inferenza, possono funzionare perfettamente su CPU standard. È ora di separare l’intelligenza dal mito dell’hardware”.

Il mercato globale dell’AI è dominato dal culto della GPU. Le schede grafiche di fascia alta – NVIDIA H100, AMD MI300, Intel Gaudi2 – sono diventate sinonimo di progresso.

Ma Broadcom ha scelto un’altra strada: costruire piattaforme capaci di usare in modo intelligente tutte le risorse disponibili, bilanciando potenza, consumo e costo.

Per Wolf, questo è il vero realismo dell’AI europea: “Non possiamo costruire intelligenze che costano milioni di euro e consumano come centrali elettriche. Dobbiamo costruire intelligenze sostenibili”.

Il ruolo di VMware Cloud Foundation

All’interno di VCF 9.0, l’eterogeneità diventa un principio architetturale.

  • Grazie a Kubernetes, Bitfusion e al Distributed Resource Scheduler, la piattaforma decide automaticamente dove eseguire ogni processo AI: CPU per inferenze leggere e pre-elaborazioni,
  • GPU per training e workload ad alta intensità,
  • DPU (Data Processing Unit) per networking, cifratura e sicurezza,
  • TPU o NPU per modelli ottimizzati specificamente.

Il risultato è un’infrastruttura AI-aware, capace di scegliere in autonomia la combinazione più efficiente di risorse disponibili, in linea con le priorità operative e ambientali dell’organizzazione.

Un ecosistema multi-accelerator

VCF 9.0 è già compatibile con le principali architetture sul mercato – NVIDIA, AMD, Intel, Graphcore, Cerebras – e punta a estendere il supporto ai progetti emergenti come RISC-V AI e Neuromorphic Chips.

“La libertà di scegliere il proprio acceleratore è parte della sovranità tecnologica”, ha ricordato Wolf. “Un ecosistema chiuso è un ecosistema vulnerabile”.

In questa logica, VMware estende al mondo dell’AI ciò che aveva fatto per la CPU vent’anni fa: virtualizzare l’accelerazione, rendendola una risorsa flessibile, condivisibile e gestibile da software.

Broadcom e VMware collaborano anche con il progetto Sky Computing dell’Università di Berkeley, che mira a costruire un’infrastruttura federata di AI tra cloud differenti.

Attraverso tecnologie come Ray e Marina, è possibile orchestrare task AI su risorse eterogenee sparse in più data center, mantenendo sovranità dei dati e interoperabilità.

La federazione del calcolo è il passo successivo alla federazione del dato,” ha osservato Hosken nel Q&A tecnico. “La sovranità del pensiero computazionale è il nuovo obiettivo europeo”.

Impatto ambientale, sostenibilità, vantaggio economico

L’AI eterogenea non è solo efficiente: è più sostenibile. Un cluster basato interamente su GPU può consumare fino a 12 MW, equivalenti a una piccola città. Distribuire i carichi tra CPU, DPU e GPU riduce i consumi fino al 40%.

Sovranità significa anche non dover scegliere tra innovazione e sostenibilità”, ha ribadito Wolf.

VCF 9.0 include moduli di energy-aware scheduling e carbon reporting, che consentono di calcolare l’impatto ambientale dei job AI e di ottimizzarli in base alla fonte energetica. Un passo verso AI green, dove la potenza computazionale non è più sinonimo di spreco.

Il vantaggio finale è economico. Molti enti pubblici, ospedali o università europee non possono permettersi cluster GPU multimilionari. L’approccio eterogeneo consente loro di utilizzare infrastrutture già esistenti, trasformandole in ambienti AI efficienti e sicuri.

La democratizzazione dell’intelligenza passa dalla diversità del calcolo”, ha sintetizzato Wolf. “Solo rendendo l’AI accessibile possiamo renderla sovrana”.

Private AI come leva competitiva nazionale

Il caso dell’Università del Lussemburgo diventa così simbolico: un Paese decisamente piccolo che, attraverso la sovranità dei dati e la diversità del calcolo, costruisce una strategia di indipendenza cognitiva.

Difendere la nostra proprietà intellettuale è difendere la nostra economia”, ha ricordato Mangenot.

Il governo lussemburghese ha annunciato nel 2025 una strategia nazionale per l’intelligenza artificiale centrata su Private AI e partnership con Broadcom, a conferma che la sovranità digitale non è più solo un tema di compliance, ma di competitività industriale.

La chiusura del panel ha riportato la conferenza sul piano politico e culturale. “Private AI non è una feature tecnica”, ha detto Wolf. “È la continuità logica della sovranità digitale. Se il dato è europeo, anche l’intelligenza deve esserlo”.

La nuova frontiera della sovranità digitale passa dunque per la federazione del calcolo, la diversità degli acceleratori e la sostenibilità operativa.

È la sintesi di un’Europa che non vuole più scegliere tra innovazione e indipendenza, ma costruire un’intelligenza che pensa secondo le proprie regole.

La vera libertà dell’AI”, ha concluso Wolf, “è la libertà di scegliere dove pensare, come pensare e per chi pensare”.

 

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