Paolo Preti, docente della Bocconi, spiega come la dimensione aziendale non sia un valore assoluto, ma una variabile attraverso cui regolamentare il business
Dov’è finito il dibattito sul declino? Dove sono finite le dotte discussioni sulla struttura industriale italiana? Il cambio di Governo e l’accelerata dell’economia hanno azzerato una discussione che è diventata presto parte della polemica politica perdendo il suo iniziale carattere accademico. Non che questo, però, le garantisse una particolare oggettività. Almeno di ciò è convinto Paolo Preti, docente della Scuola di direzione aziendale della Bocconi (e direttore del master per le piccole imprese) che, insieme alla collega Marina Puricelli, al tema del declino ha dedicato parte del suo libro “L’impresa forte” (Egea, 15 euro, 140 pp.), un manifesto per le piccole imprese che secondo gli autori devono rimanere l’asse portante del sistema industriale italiano. Perché il problema dell’Italia, come spiega in questa intervista Paolo Preti, non sta certo nelle dimensioni delle aziende.
Il dibattito sul declino era solo fuffa politico-ideologica o c’era anche della sostanza?
«Gilbert Keith Chesterton (noto scrittore e giornalista inglese di inizio Novecento, ndr) dice che la più grande verità meno qualcosa corrisponde alla più grande menzogna. Diciamo che esiste un modo per fare ideologia smaccata più facile da scoprire e c’è un modo più furbo. I declinisti, che sono persone intelligenti e quasi tutti economisti politici non aziendali, citano dati veri, ma parziali.
Uno dei dati che solo un anno e mezzo fa, sotto elezioni e in piena bagarre declinista, ricorreva, per esempio, era quello relativo al contributo italiano all’export internazionale da tutti indicato in continua diminuzione.
Solo che lo era dal ’93 ed era misurato in quantità non in valore. In pezzi esportati, è vero che era minore rispetto a prima, ma andrebbe detto che l’importo in valore aumentava sia pure di poco.
Questo non significa che bisogna stare tranquilli, ma che esportavamo meno Fiat e più Ferrari. Dietro c’è il fatto che l’Italia non stava perdendo il treno, ma cambiando l’offerta. Meno automobili per un mercato medio-basso ma più prodotti di livello».
Rimane il fatto che, visto come è cambiato il mondo negli ultimi anni, in molti continuano a pensare che la struttura italiana non sia cambiata per nulla.
«È vero, la struttura industriale italiana non è cambiata. E se è cambiata ha visto diminuire le grandi imprese e aumentare di poco le medie. Il corpo è rimasto formato dalle piccole imprese. Ma questo non è negativo perché noi non dobbiamo inseguire un modello di sviluppo economico che arriva dall’estero e in particolare dagli Stati Uniti. Io credo che gli Usa abbiano molto da insegnare all’Europa e all’Italia, ma questo non vuol dire che dobbiamo imitarli in tutto».
Però spesso si dice anche che il governo dovrebbe favorire l’unione tra aziende.
«Il problema non è la struttura. Il problema è valorizzare le Pmi che operano in un paese che non le difende. Il problema è questo non la dimensione delle aziende. E quindi detassare la successione, defiscalizzare gli straordinari, attuare la semplificazione di Capezzone (una giornata per aprire una azienda, ndr), aiutare le piccole imprese ad andare all’estero. Molte cose si dovrebbero fare ma non nella direzione di aumentare le dimensioni. Se poi qualche azienda cresce non è male, ma non è quello il punto. Chi governa dovrebbe riconoscere che la piccola e media impresa è un bene comune che va difeso e tutelato».
In certi settori, però, la grande impresa è necessaria.
«Sicuramente. Però la dimensione non è un bene assoluto. Né piccolo è bello né grande è necessario. Ognuno deve trovare la sua dimensione di riferimento. Ferrari e Fiat fanno auto solo che la prima deve restare piccola e l’altra grande. La dimensione è una variabile gestionale attraverso la quale l’imprenditore deve regolamentare il proprio business».
Internet e la rivoluzione informatica aumentano, però, i problemi delle piccole imprese che non hanno al loro interno le competenze adatte.
«Se c’è una novità tecnologica, è vero che la piccola impresa è indietro. Dopodiché sei mesi fa mi chiedevano quanto l’imprenditore italiano parla inglese. Non lo parla, ma è in tutto il mondo. Non equivochiamo. Il linguaggio, in questo caso la tecnologia, quasi mai nell’impresa italiana prende il sopravvento sul contenuto».





