La compliance alle normative sulle emissioni o sullo smaltimento sembra interessare poco gli utenti finali. A meno che non si parli di risparmio.
Per le aziende, almeno fino a quando la norma sarà entrata
definitivamente in vigore, sarà un’ottima leva di marketing. La compliance alle
direttive Rohs (sulle emissioni di sostanze nocive) e Raee (sul ritiro, il
recupero e lo smaltimento dei rifiuti di beni durevoli), l’una in vigore dallo
scorso mese di luglio e l’altra rinviata a fine anno, è un modo per affermare di
esserci, di aver già investito, di essere pronti anche in anticipo sui
tempi.
Per gli utenti dovrebbe essere una forma di rassicurazione. Una
sorta di certificato di garanzia per la salute loro, dell’ambiente nel quale
lavorano, dell’ambiente in senso lato.
A quanto pare, almeno a sentire le
aziende che di questa compliance da tempo hanno fatto una bandiera e che hanno
investito in rinnovo degli impianti di produzione, nella riformulazione chimica
degli inchiostri, nella riprogettazione delle loro macchine, il livello di
sensibilità da parte degli utilizzatori finali è e resta piuttosto basso,
indipendentemente che si tratti di utenza consumer o professionale.
A
meno che non si scelga di giocare un’altra carta.
Quella del risparmio
energetico.
Quella che, in parole povere, si traduce in dispositivi ad alta
efficienza, in componenti attivati solo se in uso e solo per la durata effettiva
del loro utilizzo, in tempi di accensione rapidissimi.
E che si traduce in un
risparmio energetico nell’ordine del 70%.
Visibile in bolletta, se si è
un’azienda.
E dunque apprezzabile.
Nel senso letterale del termine.





