L’Italia perde o guadagna posizioni. Eccelle o resta indietro. Ma il senso delle ricerche va ben oltre le classifiche.
Se poche settimane fa il report del Wef aveva in minima misura gratificato
l’Italia , che dopo lo scivolone di due anni fa è riuscita a guadagnare un paio
di posizioni, non altrettanto ha fatto ieri il report presentato da Ibm e The
Economist.
Il nostro Paese perde un posto nella classifica che misura
l’utilizzo del Web nel mondo e si colloca in venticinquesima posizione, dietro
le principali economie dell’Unione Europea.
Un dato che sembra confermare di fatto quanto emerso all’inizio del mese di aprile nella classifica Eurostat.
Ora, si potrebbe iniziare a disquisire dei criteri e dei metodi e della soggettività che in certi casi gioca un ruolo assai significativo.
Ma non si approderebbe a molto.
Servirebbe a scalare o a scendere qualche posizione, ma non modificherebbe lo statu quo.
E’ importante, allora, dare un senso diverso alla lettura di queste classifiche, al di là del divertissement o dell’indignazione con la quale valutiamo il nostro posizionamento rispetto al Botswana.
Al di là dei paradossi, la parte
più importante di queste ricerche è rappresentata dalla metodologia e dai
criteri.
Sapere se gli Stati Uniti recuperano o perdono posizioni è un tecnicismo.
Importante, invece, è capire dove sono i punti di eccellenza e dove le criticità.
Così rallegriamoci pure se non ci discostiamo dai valori di mercato per quanto riguarda la diffusione di Internet nelle imprese. Ma preoccupiamoci se la banda larga per lo più è destinata alle realtà di medie e grandi dimensioni.
E se la statistica dice che il 13% delle famiglie italiane ha un accesso a banda larga, è giusto promuoverne l’adozione.
Non prima, però, di aver capito come mai
nel nostro Paese ancora il 20% dei giovani dai 16 anni in su non abbia mai usato
Internet.





