16 dicembre 2002 Che l’impatto dell’Information & Communication Technology continui a manifestarsi presso tutto il tessuto economico industriale italiano è un’evidenza sotto gli occhi di tutti. Basti pensare che, secondo i dati pubblicati nel Rapporto …
16 dicembre 2002 Che l’impatto dell’Information & Communication Technology continui a manifestarsi presso tutto il tessuto economico industriale italiano è un’evidenza sotto gli occhi di tutti. Basti pensare che, secondo i dati pubblicati nel Rapporto 2002 Federcomin, Anasin e Assinform su Occupazione e Formazione nell’Ict, dal 2001 a oggi le imprese del settore sono passate da 77mila a 79mila, registrando una crescita del 2,6%. La spinta maggiore, ancora una volta, giunge dal settore delle telecomunicazioni – +6,8% nel 2002, rispetto al +11% del 2001 e al +8,8% del 2000 – e dalle aziende di software e servizi.
Strettamente correlata alla crescita delle imprese nell’Ict è, poi, l’aumento del numero degli occupati del settore. Stando ai dati pubblicati nella ricerca realizzata con la partecipazione di Aiip, Assocertificatori, Fedoweb, Frt e la collaborazione scientifica della Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università di Milano Bicocca, Unioncamere e Net Consulting, nel 2002, in Italia, con 598mila addetti totali, il settore delle aziende Ict hanno rappresentato circa il 2,9% degli occupati complessivi. Rispetto alla crescita del 3,4% di due anni fa, quella riportata per quest’anno è in linea con quanto registrato alla fine del 2001 e conferma il ruolo trainante della piccola impresa di casa nostra, presso la quale l’incremento è stato dell’8%, rispetto all’1,7% riscontrato nelle aziende di grandi dimensioni. A ben guardare, però, la schiera del numero di addetti totali è ben più nutrita. Basti pensare che, in senso stretto, sono circa un milione gli addetti impiegati presso aziende utenti o fornitrici e 1,7 milioni gli occupati con competenze Ict presso il settore utenti.
Ma come ha avuto modo di evidenziare Giancarlo Capitani, amministratore delegato di NetConsulting, nonostante l’effetto dot.com non abbia inficiato sui tassi di crescita del numero delle imprese del settore in Italia, quella che ci si para dinanzi è una realtà ben diversa rispetto a Europa e resto del mondo.
“Nel nostro Paese – sottolinea Capitani – prolifera una patologia d’imprese di più ridotte dimensioni, che fattura meno rispetto ai competitor, dedica minori risorse alla Ricerca & Sviluppo ed è caratterizzata da una presenza estremamente locale”.
In una siffatta realtà la spina nel fianco, ancora una volta, è lo scarso tasso di formazione. Perché, se è vero che il mercato dell’Information & Communication Technology rigenera e ricolloca le sue figure professionali più competenti, è anche vero che senza un piano di formazione continua il problema da affrontare nel nostro Paese non è più quello dello skillshortage, ma dello skillgap.
“Nel settore dell’Information & Communication Technology le competenze hanno un ciclo di vita ancor più breve si quello delle tecnologie. Motivo per cui, per le aziende di casa nostra, la formazione dovrebbe diventare risorsa strategica, e non residuale”. Con queste parole Giancarlo Capitani, amministratore delegato di NetConsulting, ha terminato il suo intervento nel corso della presentazione dei dati riferiti al Rapporto 2002 Federcomin, Anasin e Assinform su Occupazione e Formazione dell’Ict in Italia. Rapporto che, se da una parte evidenzia un forte dinamismo nella crescita delle aziende attive nel settore dell’Ict rispetto al resto dell’economia, dall’altro punta il dito sul livello di competenze in campo, ancora inadeguato. Ma al di là delle osservazioni sul ruolo che Governo e Istituzioni dovrebbero svolgere per incentivare gli investimenti in conoscenza da parte delle aziende, privilegiando non il singolo evento formativo, ma i progetti di tipo continuativo, l’accento è su un’altra questione. Al crescere del numero delle imprese nel settore Ict corrisponde un aumento del numero di occupati. Ma siamo davvero sicuri che non si tratti degli esuberi del comparto costretti, per forza di cose, a rimettersi in gioco diventando imprenditori di sé stessi? È quel che si è chiesto Maurizio Cuzari, amministratore delegato di Sirmi, dalla platea degli intervenuti alla presentazione del Rapporto. Perché l’aria che tira, a livello economico-finanziario, e non solo fra le mura di casa nostra, è tutto tranne che incoraggiante. La ripresa non decolla e con essa gli investimenti da parte delle aziende di tutti i settori, ancora ferme e in attesa che qualcuno faccia il primo passo, ancora troppo prese dall’ansia del recupero di marginalità ed efficienza attraverso il contenimento marcato dei costi. Ed ecco allora spiegato perché non si investe, o lo si fa ancora in misura troppo marginale, in formazione. A onor della cronaca sono le aziende It e i grandi gruppi bancari assicurativi che, nel 25,5 e nel 18,4% dei casi, investono in formazione di tipo tecnico professionale. Ancora ferma all’alfabetizzazione è, invece, nel 40,4% dei casi, la Pa Centrale seguita da quella locale, che la applica nel 17,5% dei casi.





