Quando i profitti spariscono

Le continue accuse alle grandi aziende, specialmente Ict, di non pagare le tasse è conseguenza di accordi internazionali imprecisi e mal documentati. Il G20 ha chiesto lumi all’Ocse, che ha individuato il Beps.

Negli ultimi tempi da più parti si sono levati strali contro i colossi della new economy in quanto presunti evasori fiscali. Tra gli altri Google, Yahoo!, Amazon ed anche Apple sono finiti sotto la lente del controllo dei singoli Stati nazionali per svariati motivi, per esempio se le filiali producono reddito in uno Stato ma pagano le tasse in un altro di tassazione più favorevole.
Curiosamente queste aziende sono proprio quelle innovative, che cioè introducono nuovi prodotti o servizi con modifiche parziali o totali della filiera.
Un altro filone, diverso ma molto simile, ha riguardato altri colossi. Nelle scorse settimane Dell ha dovuto affrontare il rientro in cassa dei guadagni nelle filiali estere, un’operazione che a termini di legge statunitense sarebbe costata 2,6 miliardi di dollari. Si tratta di situazioni normalmente affrontate da tutti i colossi, come anche Apple, seppure per una questione originata dal pagamento di dividendi, ha dovuto recentemente affrontare.
Inrealtà le aziende non evadono in termini stretti, bensì interpretano a loro favore leggi ed accordi che sono nati imprecisi.
Il commercio internazionale ruota e funziona intorno al concetto di asimmetrie normative nella produzione, distribuzione o commercializzazione. Le varie entità in gioco, Stati ma anche organismi non statali o internazionali, combattono vere e proprie guerre nella speranza di avere in casa quante più asimmetrie possibili, in modo da produrre reddito nei propri confini per i cittadini, gli imprenditori e le casse dell’erario. In generale queste asimmetrie sono temporanee: quando il vantaggio diventa troppo grande le altre entità in gioco, Stati o concorrenti, protestano per ammorbidire o annullare il vantaggio. In alcuni casi non funzionano neanche.


Una legge contro le leggi?

I trattati internazionali, così come l’allargamento dei mercati, amplificano i campi di applicazione delle asimmetrie anche per chi intenda restare dentro i confini della legalità. Anche senza pensare a paradisi fiscali o altre forme meno legali, insomma, è uscito finalmente fuori che i trattati internazionali amplificano le diseguaglianze, quasi arricchendo i ricchi e addossando le spese di gestione ai poveri. In pratica gli accordi per evitare una doppia tassazione spesso possono essere interpretati al limite della doppia non-tassazione: sui profitti si pagano tasse scarse o nulle in entrambi gli Stati.
I trattati in vigore permettono di eludere il pagamento delle tasse nel luogo di produzione del valore, sia per quantità per per localizzazione. Serve quindi un’azione quadro contro l’enorme numero di possibili artifici contabili, certo legali ma non per questo equi. Il problema è stato analizzato dall’Ocse su richiesta del G20 e messo in evidenza internazionale in vista del G20 di Mosca. L’Ocse ha sviluppato l’“Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting”, un rapporto di quaranta pagine con quindici consigli.
La lettura del documento è interessante. Gli accordi internazionali erano stati fatti con obiettivi validi, ma la tecnologia e il cambiamento dei modelli di business hanno impresso spinte in direzioni e velocità superiori agli effetti intesi dagli accordi internazionali sulle tassazioni.
C’è necessità di fare analisi migliori, con documentazione superiore all’attuale, sistemi di verifica comuni e la chiara volontà di evitare gli effetti del Beps, Base erosion and profit shifting.
Vista dal di fuori sembra una cosa buona, ma si tratta di dire alle grandi aziende di pagare molte più tasse. Un sistema comune di verifica dei dati sembra un ente superiore a quelli già esistenti. A noi italiani questa cosa sembra identica all’ente per l’abolizione degli enti inutili, una cosa della quale si parla da oltre quarant’anni e che ha portato a risultati molto scarsi, per non dir nulli.

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