Telelavoro, quando l’azienda entra in casa

Una vantaggiosa trasformazione in atto che impone di non trascurare i riflessi sociali.

Nell’ultimo periodo si è registrata un’impennata nel passaggio dal lavoro al telelavoro, fenomeno descritto e ambito ormai da anni.
Alcune società tecnologiche, al solito, stanno facendo da esempio e traino per le altre. Su tutte Microsoft, fresca di varo di una nuova sede operativa “sostenibile e virtualizzata” a Peschiera Borromeo, che prevede fra l’altro l’ottimizzazione delle postazioni nell’ottica dell’ubiquità del dipendente.
Un fenomeno che già riguarda, altro esempio, i dipendenti di Dell.

Qualche manager di Microsoft ebbe modo di rivelarci tempo fa che la virtualizzazione della postazione era peraltro già uno status quo. Leggi: lavorava a casa o altrove, comunque spesso non in sede.

I determinanti della svolta decisa (altre società seguiranno) sono due tecnologie diventate mainstream, specie sotto il profilo della sostenibilità economica: le comunicazioni unificate e la telepresenza.

Il primo sistema funziona bene se consente di allineare tutti gli strumenti di presenza dati. Il secondo se permette di surrogare in modo soddisfacente la prossemica, e per molti riesce a farlo. Non vogliamo essere superficiali o sommari portando a evidenza alcuni elementi che dovrebbero essere presi in considerazione dalle risorse umane di qualsiasi azienda e, perché no, dal legislatore.

Primo: la smaterializzazione della scrivania ha riflessi immediati sul costo della facility, benéfici per l’azienda. Teniamo presente però che delocalizzando la postazione di lavoro di fatto se ne attribuisce il costo fisico al lavoratore.

Secondo: l’ubiquità conferisce al lavoro un’elasticità che è vantaggiosa per l’azienda, per motivi ormai sviscerati. Per il lavoratore significa allungamento del tempo. Ossia richiede che qualcuno si prenda in carico un’oculata gestione, che sappia tutelare anche il diritto al riposo (ne va anche dell’interesse aziendale).

Terzo: la telepresenza azzera i costi di trasporto che sostiene l’azienda. Però se fatta in casa obbliga il lavoratore ad approntare un’area per i collegamenti che sia adeguata dal punto di vista del decoro e della privacy. E nondimeno i vantaggi che qualcuno ventila, come quello di “lavorare in pantofole” non sono del tutto veri. A una sessione di telepresenza non ci si può presentare con la maglietta sporca.

Quindi, non è tanto il dipendente che non va in azienda, ma è l’azienda che entra in casa. È proprio questo aspetto andrebbe vagliato, se necessario discusso e gestito.
La tecnologia fa fare grandi e belle cose, ma non per questo bisogna sempre lasciargli mano libera.

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