Amazon ammonisce contro il false cloud, Salesforce parla di fine del software, il mercato ammicca ad un approccio misto. Ma attenzione a quando si spostano i dati: il rischio non è solo economico.
Il cloud computing sta pavimentando la sua strada nel mondo dell’informatica post-crisi. Tra i tanti nemici che deve fronteggiare c’è anche il marketing, quello incrociato ovviamente. Ma non solo, come vedremo.
Nel 2009 un termine è stato usato piuttosto spesso: “false cloud”, o virtual private cloud, con dati locali ma software a consumo. E’ quanto Salesforce ed Amazon hanno propagandato negli ultimi tempi con i loro messaggi, andando contro i tradizionali vendor (Microsoft, IBM, HP); la prima aveva addirittura parlato di end-of-software.
“Il real cloud è arrivato”, ha trionfalmente annunciato Werner Vogels, Cto di Amazon, all’affollatissima Structure 2010, la conferenza di Gigaom appena tenutasi a S. Francisco. Non ero presente, quindi non mi è dato sapere se siano stati sottolineati pro e contro di Aws contro Amazon Virtual Private Cloud, un’offerta che non dovrebbe esistere e che invece, che ad onta dei proclami, esiste.
Sui due giorni di convegni mi piacerebbe tornare in successive disamine, visti gli argomenti in ballo, tra i quali la cloudonomics. Per ora IDC prevede un aumento del business “nuvolare” di circa il 17% annuo, una cifra non enorme ma magari influenzata da altre questioni macroeconomiche quali il cambio e gli investimenti.
Tornando a bomba, la questione privato-pubblico sembra di lana caprina. C’è una forte attenzione del mercato per il modello ibrido, secondo molti indicatori e anche l’esperienza diretta di Mary Jo Foley di Zd-Net. In un evento commerciale sponsorizzato da Amazon in New York e dedicato agli Aws (Amazon Web Services) -non ero neanche lì, ma ne riferisce Mary Jo-, spesso i clienti si dichiarano seguaci del public cloud ma di fatto usano modelli ibridi. C’è chi parte da Sharepoint e mantiene in casa il software ma mette i dati in Aws, per dirne una; ma mantenendo i dati in una omogenea confederazione di Stati.
Non sempre, però, è così. Di contrattualistica s’è parlato ad un recente evento milanese, “Virtualizzazione e cloud computing: rischi e opportunità” organizzato dallo studio legale Dla Piper, che dell’internazionalità fa una bandiera. Noiosamente ripeto che non ho presenziato neanche a questo incontro, ma ne ha parlato Pino Fondati di 01Net, sottolineando il rischio imprenditoriale di una esternalizzazione dei dati. Il rischio può essere maggiore, se questi dati varcano i confini nazionali.
Big Hot Data
Ma io c’ero da qualche parte dove si parlava di cloud, o riporto solo informazioni di seconda mano? Sorprendentemente la risposta è sì. Sono infatti stato presente alla Relazione 2009 del Garante della Privacy, dove se ne è parlato, sorprendentemente perlomeno nei toni.
“Occorre riflettere anche sui rischi che pone la nuova tecnologia del cloud computing”, ha detto Pizzetti, “un fenomeno che moltiplicherà i servizi di remote hard disk, (…) una nuova frontiera che allarma tanto le strutture militari quanto quelle di sicurezza interna, e che coinvolge problemi di enorme portata”.
Detta così sembra un’esagerazione, ma non lo è. Il mondo attuale si basa molto, forse troppo, sul concetto di Stato, con i suoi confini definiti. Spostare dati in Rete al di fuori dei confini nazionali crea problemi di enorme entità. Il nemico del cloud potrebbe essere proprio l’esistenza di legislazioni locali, impossibili da uniformare. Era ragionevole supporlo, poiché il cloud è Internet e la Rete, che non è nata sicura, comuqnue non si piega alla storia del diritto.
Termino con una annotazione. La relazione del Garante riporta il cloud subito sotto il capoverso sulle attività svolte contro il Cybercrime, e solo un “a capo” sottolinea il passaggio tra i due argomenti. Sarà mica un messaggio?





