Virtualizzazione e cloud la staffetta è iniziata

Con Vincenzo Messina, Ca senior Solution Strategist, analizziamo il modo in cui le aziende possono servirsi della virtualizzazione per avere successo con il cloud computing

La virtualizzazione e il cloud computing danno modo di attuare una trasformazione strategica dell’It: l’accoppiata è il fenomeno informatico che andrà a modificare le modalità di creazione e fruizione dei servizi e il ruolo stesso dell’It. La transizione da una gestione del data center caratterizzata da scarsità di competenze qualificate e da un alto fabbisogno di capitale a un’infrastruttura pagabile in base al consumo è un cambiamento fondamentale nel ruolo della funzione It, conseguente all’esternalizzazione di parte delle attività quotidiane, come il provisioning dei server, la manutenzione della rete e il monitoraggio dell’infrastruttura 24 ore su 24.

L’hardware dei processori x86 era stato progettato per ospitare un solo sistema operativo e una sola applicazione, lasciando sottoutilizzate la maggior parte delle macchine. La virtualizzazione offre invece la possibilità di mantenere molteplici virtual machine su un’unica macchina fisica, con conseguente condivisione delle risorse del computer fra più ambienti operativi: in tal modo vi possono essere sistemi operativi diversi su più macchine virtuali, con applicazioni diverse che convivono sullo stesso computer. Risultato: si risparmia perché non occorre più acquistare o curare la manutenzione di molti server.

All’inizio le funzioni informatiche aziendali si sono mosse con cautela, procedendo per gradi nell’implementazione. In circostanze normali, la virtualizzazione interessa gli ambienti di testing e sviluppo poco critici, dove vi sono poche esigenze di gestione, ancor meno esposizione verso i vertici aziendali, nessun impatto sui processi e scarse preoccupazioni dal punto di vista della compliance o della sicurezza. E sono tanti i vantaggi: sviluppo e testing più efficienti con la possibilità di sviluppare il codice da un’unica workstation per ambienti operativi diversi e le risorse elaborative sono utilizzate in modo più efficiente perché il provisioning può avvenire in base alla configurazione dei sistemi.

E allora cosa frena la diffusione globale della virtualizzazione? Secondo Vincenzo Messina «il fattore rischio. Quando si virtualizza un’applicazione, si rischia di perdere informazioni sulla gestione e il controllo dell’applicazione stessa. Se gestita male, la virtualizzazione può inficiare la diagnostica dei malfunzionamenti e l’analisi dell’origine dei problemi; è più difficile realizzare in tempo reale il rilevamento e la segnalazione delle modifiche di configurazione; inoltre la creazione e rimozione di partizioni virtuali rendono necessario prestare attenzione alla sicurezza».

E anche la complessità può essere fonte di preoccupazioni. «Quando un’azienda inizia a virtualizzare la propria piattaforma – spiega Messina – tende a impuntarsi su iniziative ad alta criticità come l’infrastruttura real-time, l’orchestrazione predittiva o il self-service Web in modalità 24×7. Via via che crescono le dimensioni e aumentano ambienti e applicazioni virtualizzate, diviene sempre più indistinta la linea di demarcazione fra ambienti fisici, virtuali e applicativi, per non dire del fatto che la maggior parte dei management tool non vanta l’ampiezza e la profondità necessarie a realizzare servizi sufficientemente agili per il supporto del business aziendale».

I tipici servizi di cloud computing prevedono applicazioni gestionali online, accessibili da un browser, con software e dati memorizzati sui server. I servizi, in linea generale, ricadono in tre categorie: Infrastructure as a service (Iaas), che comporta la fruizione sotto forma di servizio, dell’infrastruttura informatica, in genere costituita da un ambiente di virtualizzazione; Plat-form as a service (Paas), che rende disponibile un insieme di soluzioni sotto forma di servizio; Saas, Software as a service, che elimina il bisogno di installare ed eseguire l’applicazione sul computer dell’utente, alleviando la manutenzione.

Tre tipi di nuvole: private, pubbliche, ibride

Secondo Messina stanno prefigurandosi tre tipologie di cloud: privati, ibridi e pubblici. Il cloud privato è costituito da un ambiente interno, orientato al servizio e ottimizzato dal punto di vista di performance e costi, da implementare all’interno del data center dell’azienda. Il cloud ibrido è caratterizzato da configurazioni che riuniscono risorse fisiche e virtuali, scalabili elasticamente in base all’andamento della domanda. Il cloud pubblico è già erogato da service provider e offre ai clienti la possibilità di implementare e fruire di servizi. Dal punto di vista architetturale, un cloud privato non è così diverso dall’infrastruttura virtualizzata di un’impresa moderna, riportato in scala più grande. Entrambi sono formati da un insieme di server x86, rifiniti da un grid engine o da un’infrastruttura virtuale basata su Hypervisor. Molti ritengono che il futuro dell’It aziendale sia da ricercare nei cloud privati: reti flessibili, realizzate sul modello di provider pubblici, come Google e Amazon, e tuttavia gestite per gli utenti della singola impresa. Un cloud privato consente agli sviluppatori di implementare applicazioni sul cloud attraverso un portale di self-service senza intervento da parte dell’amministratore dei server. I cloud privati dispongono di un motore per la distribuzione automatizzata dei carichi di lavoro per stabilire l’assegnazione dei workload e ottimizzare il gruppo di risorse elaborative virtualizzate in modo da ospitare più applicazioni.

Come sfruttare i vantaggi del nuovo modello

Per trarre il massimo vantaggio dalla virtualizzazione, secondo Messina, è essenziale disporre di strumenti per la gestione e l’automazione. Processi e controlli standardizzati, sostenuti da tecnologie di virtualizzazione mature e tool intelligenti, contribuiscono a realizzare un ambiente di cloud computing a elevate prestazioni, in grado di rispondere alle esigenze di classe enterprise. In un’ottica di processo, l’automazione è fondamentale per una dinamica scalabilità delle risorse It e per i rapidi provisioning e de-provisioning delle risorse elaborative e applicative.

«L’automazione – dice il manager – orchestra l’interazione fra i componenti fisici e virtuali necessari a creare un cloud privato. Poiché continua a crescere il numero di macchine virtuali per server fisico, l’It aziendale incontra maggiori difficoltà nel gestire manualmente processi quali l’installazione e la configurazione del sistema operativo e l’implementazione delle patch e degli upgrade. Sono, inoltre, necessari tool e policy di monitoraggio per garantire la disponibilità e la performance del servizio, e per ottemperare ai requisiti di legge».

Le aziende vincenti ricorreranno a soluzioni pronte all’uso per costruirsi cloud pubblici o privati. Avvalendosi dei tool di gestione potranno crearsi un pool di risorse interne, da allocare in base al fabbisogno e configurare automazione e self-service all’interno della soluzione. Per qualsiasi servizio utile al business, questi strumenti di virtualization management avranno anche la capacità di monitorare il servizio in modo flessibile e riallocare la capacità inutilizzata.

Risultato? «Una soluzione chiavi in mano – dice Messina – che sorregge la strategia di cloud computing con il miglioramento del rapporto server-amministratore e dell’occupazione dei server, la riduzione dell’impronta di carbonio e l’innalzamento della disponibilità e della performance dei servizi per il business muovendosi in modo da predisporre l’organizzazione per il cloud ibrido».

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