Verso nuove valute nel commercio mondiale?

Il dollaro manterrà il suo ruolo come principale divisa di regolamento utilizzata nel commercio mondiale? Oppure sarà sostituito?

Il dibattito sul ruolo della moneta statunitense, che non è solo teorico ma ha evidenti risvolti pratici, era iniziato in sordina già molti anni fa, con i primi evidenti segni di debolezza del dollaro; con lo scoppio della crisi finanziaria, petrolifera ed economica del 2008, è diventato un tema ricorrente.


A dire il vero, nel nostro paese sembra essersene accorto solo Federico Rampini, che da giornalista esperto dell’evoluzione storica ed economica di varie aree mondiali, e in primis dei giganti dell’estremo oriente (l’“Impero di Cindia”, come lo ha definito in un suo bel libro), è attento a cogliere le evoluzioni nel commercio internazionale.


Solo recentemente Il Sole 24 Ore è uscito con qualche articolo sull’argomento, ma da economisti e politici è venuto solo silenzio. Eppure la materia è scottante, e promette di mutare radicalmente lo scenario valutario mondiale a partire da subito, e di porre nuovi problemi e necessità alle nostre imprese.


In due successivi articoli cercheremo di affrontare questa problematica in modo più approfondito.


In particolare, in questo numero della rivista si parlerà di:



  • indebolimento del ruolo del dollaro sui mercati internazionali;



  • sviluppo dell’area euro e dell’utilizzo dell’euro nei regolamenti;



  • proposte cinesi di adottare i


diritti speciale di prelievo (Special Drawing Rights – Sdr) come valuta di riserva internazionale.


Nella seconda parte, si parlerà di:



  • proposte dei Bric per regolare nelle rispettive valute il commercio fra tali paesi;



  • accordi di swap valutari fra Cina, Brasile e Argentina per regolare il commercio bilaterale;



  • mercati delle principali valute emergenti;



  • possibili conseguenze che questa serie di mutamenti avranno sui mercati valutari, il commercio mondiale, le esportazioni italiane e le necessità finanziarie e di tesoreria delle nostre imprese.


Il dollaro, un gigante indebolito


Non è da oggi che si parla di indebolimento del ruolo del dollaro come moneta centrale della finanza e del commercio internazionale.


In suo recente articolo proprio Federico Rampini (“Dollaro. Così la Cina rilancia la sfida alla leadership della moneta Usa”, La Repubblica, 14 luglio 2009) ricorda la battuta dell’allora segretario del Tesoro Usa, John Connally, che all’indomani della sospensione della convertibilità in oro della valuta statunitense (alla parità fissa di Usd 35 per oncia d’oro), rivolgendosi soprattutto ai paesi europei, diceva: “Il dollaro è la nostra moneta, ma è il vostro problema”.


Era l’agosto del 1971, e con la decisione del Presidente Nixon finiva l’era di Bretton Woods, che tutto sommato era stato, dal 1944 per i 27 anni successivi, un periodo di sostanziale stabilità dei cambi, garantita dal doppio legame delle principali valute con dollaro e oro (il c.d.


gold dollar standard). La fine degli accordi di Bretton Woods dà la stura ad una serie di fenomeni che hanno accompagnato la finanza mondiale per molti anni: le svalutazioni competitive, l’iperinflazione esportata dagli Usa a causa dei deficit congiunti del bilancio e dei conti con l’estero, le crisi finanziarie, le crisi debitorie di molti paesi, le crisi petrolifere.


Nonostante ciò, il dollaro è rimasto ancora la valuta di riferimento sia per le riserve valutarie dei vari paesi e della maggioranza delle istituzioni finanziarie internazionali, sia per il regolamento dei flussi di commercio internazionali.


Basti pensare che, anche nel momento peggiore della crisi petrolifera del 2008, quando il barile di petrolio aveva raggiunto la quotazione record di Usd 150 e il cambio Eur/Usd sfiorava quota 1,60, non si è raggiunto un accordo fra i paesi Opec per sostituire al dollaro un’altra valuta, o un paniere di valute, per il calcolo del prezzo del petrolio.


Secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, la composizione per valute delle riserve valutarie mondiali nel 2008 vede il dollaro presente per quasi i 2/3 (per la precisione, il 64%) nei “forzieri” delle banche centrali e delle istituzioni monetarie (v. tavola).



Composizione per valuta delle riserve mondiali






























Valuta



%



USD



64



EUR



26,5



GBP



4.1



YEN



3.3



Altre valute



2.1




Fonte: FMI, International Financial Statistics, 2008


Legenda:


USD = dollaro Usa


EUR = euro


GBP = sterlina inglese


Lo stesso discorso vale per le valute utilizzate per il commercio internazionale. Non ci sono statistiche ufficiali legate solo alle transazioni commerciali, ma a tutte le valute utilizzate per le operazioni in cambi, di natura commerciale e finanziaria. La principale fonte di informazione al riguardo è il Rapporto triennale della Bank for International Settlements (Bis).


L’ultima edizione è il rapporto Foreign exchange and derivatives market activity in 2007 del dicembre 2007 (v. tavola).



Secondo i dati della Bis, a fronte di un turnover in notevole aumento di operazioni e volumi sui mercati mondiali (da Usd 1,4 trilioni – migliaia di miliardi – al giorno nel 2001 a Usd 3,2 trilioni al giorno nel 2007), non c’è stata una marcata variazione nelle coppie di valute prescelte. Il dollaro veniva utilizzato nel 45,5% dei casi nel 2001 (compariva 91 volte su 100 rapporti di cambio, cioè su 200 valute), nel 44% dei casi nel 2007; l’euro veniva utilizzato nel 19% dei casi nel 2001, nel 18,5% nel 2007. Variazioni dunque minime, almeno in passato. Siamo però convinti che nei prossimi Rapporti della Bei ci saranno notevoli differenze rispetto a questi dati.


Il dollaro è quindi sopravvissuto alle tempeste valutarie del 1971 e dei decenni successivi, per molti buoni motivi, che si addicono ad ogni valuta che voglia essere considerata universalmente accettata:



  • il dollaro è una valuta liquida:


come abbiamo detto, tutte le banche centrali hanno ingenti riserve nella divisa statunitense;


ogni giorno quasi 3 trilioni di dollari vengono negoziati sul mercato dei cambi, e tanti altri sugli altri mercati finanziari (azioni, obbligazioni, derivati, borse merci, mercati monetari).


In ogni sala cambi del mondo, in ogni paese del pianeta dove ci sia un pur ridotto mercato finanziario, c’è qualcuno in grado di fornire quotazioni aggiornate del dollaro, 24 ore su 24, per 365 giorni all’anno.


Che piaccia o meno, questo è un dato di fatto incontrovertibile.


La misura della liquidità del dollaro è data da una constatazione:


se una banca, in un colpo solo, negoziasse 500, o anche 1.000 milioni di dollari, le sue quotazioni si muoverebbero solo nella terza o quarta cifra decimale. La stessa cifra, negoziata contro un’altra divisa, provocherebbe uno sconquasso (basti ricordare cosa avvenne per la lira o la sterlina inglese nel 1992);



  • il dollaro è una valuta che permette ai detentori di crediti e debiti in tale moneta di effettuare coperture dal rischio di cambio e di tasso d’interesse pressoché in tutto il mondo.


Questo altro aspetto, ossia la disponibilità di un gigantesco mercato mondiale dei cambi (spot e a termine) e dei derivati in dollari, permette alle imprese e alle banche di accettare operazioni di credito e debito in dollari, sapendo che potranno trovare coperture nella propria valuta locale, o che potranno raccogliere e impiegare fondi in dollari con contropartite locali o estere;



  • il dollaro è una valuta accettata.


Il fatto che ovunque nel mondo siano accettabili pagamenti in dollari – persino nei paesi nella black list americana –


rende possibili utilizzare la valuta americana come riferimento negli scambi internazionali.


Certamente la popolarità del dollaro negli ultimi tempi è stata messa in crisi da una serie di fattori concomitanti:



  • la nascita dell’euro e il suo affermarsi come alternativa al dollaro in aree geoeconomiche sempre più diffuse, come vedremo in seguito;



  • la debolezza del cambio del dollaro contro le altre principali valute mondiali;



  • il fatto che il dollaro abbia agevolato il trasferimento della crisi finanziaria ed economica (e in parte anche della crisi energetica) dagli Usa a gran parte del resto del mondo;



  • il prepotente e veloce affacciarsi sui mercati mondiali degli scambi di nuove potenze economiche, in particolare i Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e gli altri paesi emergenti;



  • la presenza, sui mercati mondiali, di nuovi investitori istituzionali (fondi sovrani, fondi di investimento, ecc.), che hanno tutto l’interesse a diversificare, anche valutariamente, i propri investimenti.


Sfida dell’euro
Quella che viene ormai comunemente definita Eurozona, ossia l’area dei paesi che adottano l’euro come valuta legale (Unione Monetaria Europea), è cominciata ufficialmente il 1° gennaio 1999, quando undici paesi dei quindici che allora componevano l’Unione Europea fissarono irrevocabilmente i cambi delle proprie valute nazionali contro euro. A questi undici si è poi aggiunta la Grecia dal 2001. Sono invece rimasti fuori, per propria scelta, Regno Unito, Svezia e Danimarca.


Dal 1° gennaio 2002 furono introdotte monete e banconote in euro in questi dodici paesi, e entro breve tempo (un massimo di 6 mesi) le loro monete nazionali scomparvero dalla circolazione.


Con l’ingresso della Slovenia, dal 1° gennaio 2007, di Cipro e Malta, dal 1° gennaio 2008, e della Slovacchia, il 1° gennaio 2009, l’Eurozona è composta da 16 paesi (v. box); nello stesso box sono indicate le modalità di allargamento dell’Eurozona, e le nazioni e i territori che utilizzano l’euro come valuta nazionale.



L’Eurozona ed il suo allargamento
Paesi che compongono l’Eurozona:




  • Austria



  • Belgio



  • Cipro



  • Finlandia



  • Francia



  • Germania



  • Grecia



  • Irlanda



  • Italia



  • Lussemburgo



  • Malta



  • Paesi Bassi



  • Portogallo



  • Slovacchia



  • Slovenia



  • Spagna


I sei paesi su dieci che hanno aderito all’UE nel maggio 2004 e non fanno ancora parte dell’Eurozona, e i due (Bulgaria e Romania) che hanno effettuato il loro ingresso il 1° gennaio 2007 possono entrare nell’UME a due condizioni:



  • dopo aver partecipato per almeno due anni all’ERM2 (si veda in seguito la definizione);

  • a patto di essere in regola con i cosiddetti principi di Maastricht (limiti alle percentuali del debito pubblico e del deficit pubblico rispetto al PIL, tassi di interesse e inflazione in linea con la media UE, indipendenza delle Banche Centrali).


Lo scopo del Meccanismo di Cambio Europeo (Exchange Rate Mechanism, comunemente definito ERM2) è di assicurare la stabilità del cambio contro euro della valuta di un paese aderente all’UE, in accordo con le competenti istituzioni monetarie europee. Un paese può chiedere di entrare nell’ERM2 una volta diventato membro effettivo dell’UE, e la partecipazione a tale meccanismo di cambio è a sua volta precondizione per la piena adozione dell’euro.


All’interno del Meccanismo di Cambio, l’effettivo tasso di cambio di una moneta nazionale contro euro può variare in una fascia del +/- 15% attorno alla parità fissata.


Non è previsto l’ingresso nell’Eurozona dei paesi della Nuova Europa fino al 2012.


L’euro come moneta nazionale è adottato anche (fonte: Wikypedia):





  • in alcune isole e città fuori dall’Europa che costituiscono possedimenti francesi, spagnoli e portoghesi.


Le nazioni dotate di una divisa nazionale agganciata a una valuta confluita nell’euro si sono di conseguenza agganciate all’euro; è il caso del marco convertibile della Bosnia. Per decisione del Consiglio, su richiesta di Francia e Portogallo, l’euro ha sostituito sia il franco, nelle parità centrali con le due unioni africane che utilizzano il franco CFA e con l’unione monetaria del franco CFP, sia l’escudo portoghese nella convertibilità fissa con l’escudo capoverdiano.



Dalla debolezza della sua fase iniziale, fino alla fine del 2001 (il cambio Eur/Usd iniziale era di 1,17 circa, ma scese fino al minimo storico di 0,82 nell’ottobre del 2000), la moneta europea ha continuato a rivalutarsi quasi ininterrottamente contro quella americana, fino al massimo storico di 1,5919 nel luglio 2008. Con la fase più acuta della crisi finanziaria, le valutazioni dell’Eur/Usd


hanno cominciato un’altalena che ormai dura da un anno e non dà segni di finire in tempi brevi.


Il cambio EUR/USD (luglio 2008-luglio 2009)
Fonte: Alice economia, finanza, valute



La volatilità di questo cambio nel periodo di un anno fra il luglio 2008 e 2009 è stata la più alta negli oltre 10 anni di vita della valuta europea.


Non vogliamo addentrarci qui nell’annosa polemica fra i favorevoli e i contrari all’euro, nella quale comunque stiamo dalla parte dei primi, perché secondo noi contano più i pro che i contro alla moneta unica. Prova ne sia che, ad esempio:



  • nonostante la valuta forte, la Germania rimane il primo esportatore mondiale; e, anche durante la crisi, l’Italia rimane il secondo esportatore europeo;



  • la crisi ha evidenziato che, fra i paesi della nuova Europa, quelli entrati nella Eurozona (Slovenia e Slovacchia) sono stati protetti dal cambio, mentre gli altri hanno avuto seri problemi dovuti alla svalutazione della loro moneta;



  • la sostituzione dell’euro a molte valute europee ha notevolmente semplificato la vita alle imprese del nostre continente. Prima del 2002, ad esempio, il 90% delle imprese italiane aveva rischi di cambio rispetto al dollaro e molte valute europee. Dopo l’avvento dell’euro e fino ad oggi, solo una minoranza ha ancora rischi di cambio, e quasi tutti in termini dell’Eur/Usd;



  • l’adesione all’euro ha permesso di mantenere bassi tassi d’interesse, e quindi un minor costo del credito in una situazione di credit crunch generalizzato.


Dei tre requisiti che abbiamo prima identificato (liquidità, possibilità di coperture, accettabilità), per essere utilizzabile come moneta di riserva e di scambio, l’euro soddisfa pienamente i primi due, in quanto il suo mercato è estremamente vasto e tutti i tipi di contratti e di coperture su tassi e cambi sono facilmente reperibili.


Il fattore più problematico riguarda l’accettabilità dell’euro. È vero che in questi dieci anni l’euro ha notevolmente allargato la sua fascia di influenza al di fuori della Ue, a tutti i paesi dell’Est Europa, alla Russia, all’Africa del Nord e gran parte dell’Africa Subsahariana, persino al Medio Oriente. In questi paesi euro e dollaro sono entrambi accettati, più meno sullo


stesso piano. È vero pure che anche paesi emergenti dell’Asia come Cina e India accettano tranquillamente fatturazioni attive e passive nella valuta europea. Tuttavia rimangono vaste aree del mondo dove le fatturazioni in euro non vengono accettate volentieri, come le Americhe e gran parte dell’Asia e dell’Africa. Mentre tutti in Europa – bon gré mal gré – accettano il dollaro, negli Usa ben poche imprese accettano di regolare i propri commerci in euro.


Non giova inoltre all’euro il fatto di avere sì alle spalle un sistema di banche centrali incardinato sulla Banca Centrale Europea, ma non un’unità di politica economica e commerciale estera, date le frequenti divisioni o comunque le diversità di prospettive dei vari stati membri. Dunque, a meno di grandi scossoni economici per ora difficilmente prevedibili, l’euro è destinato a rimanere “una” delle valute del commercio internazionale, e non “la” valuta principale.


La Cina, il dollaro e la riforma del sistema monetario internazionale
In uno scenario nel quale il dollaro mostra minacciosi segnali di indebolimento, eppure rappresenta ancora la principale valuta di riserva e del commercio internazionale, la Cina si trova davanti ad un drastico interrogativo.


Da una parte, la Cina non ha alcuna intenzione di esprimere gran parte del suo commercio estero in una valuta ormai debole, che per di più, con il massiccio intervento dello stato a favore di banche e imprese, minaccia di aggravare deficit pubblico e della bilancia dei pagamenti Usa, e di esportare nei prossimi anni inflazione e instabilità valutaria. Tanto più che le autorità cinesi, non senza motivo, attribuiscono gli ondeggiamenti della valuta americana a errori della politica Usa delle passate amministrazioni in materia valutaria, creditizia, energetica e militare. In più, la fragilità del dollaro ha costretto le autorità monetarie cinesi, che controllano strettamente il cambio dello Yuan (la valuta cinese, sigla Cny), a rivalutare più volte il cambio della valuta cinese contro dollaro, passato negli ultimi anni da 8,24 a 6,80 Cny contro Usd. Questo certamente non fa piacere alla Cina, che deve fronteggiare una minore competitività di prezzi delle sue esportazioni nei paesi che utilizzano il dollaro come valuta del proprio interscambio.


Dall’altra parte, tuttavia, il gigante asiatico è strettamente legato alla valuta statunitense, se si pensa che i 2/3 delle sue riserve valutarie, che quest’anno hanno abbondantemente superato i 2 trilioni di Usd, sono espresse nella valuta Usa. Se a queste si aggiungono gli investimenti negli Usa di fondi sovrani, banche pubbliche, assicurazioni, fondi privati, si può intuire che le disponibilità cinesi in dollari ammontano a diverse migliaia di miliardi di dollari, facendo della Cina il più grande creditore degli Usa al mondo.


Pertanto un tracollo improvviso e immediato della valuta Usa procurerebbe enormi danni ad un paese che negli ultimi anni si è autocondannato ad una crescita minima dell’8%, per evitare che tutte le contraddizioni territoriali e sociali (mischiate ai confronti etnici e religiosi) causate da uno sviluppo così vorticoso, e tenute sotto controllo solo tramite un forte apparato repressivo, vengano a esplodere simultaneamente.


Il problema del rapporto della Cina con il dollaro è un problema di amore ed odio, e si traduce nella necessità di convivere, almeno per qualche anno, con la valuta americana, cercando al contempo di superarne il ruolo centrale nell’economia e nella finanza mondiale.


E così la People’s Bank of China (Pbc, la banca centrale cinese), guidata dall’infaticabile governatore Zhou Xiaochiuan, ha maturato una politica del doppio binario: da un lato esercitare pressioni sul Fondo Monetario Internazionale per allargare il ruolo dei Diritti Speciali di Prelievo (Sdr) come valuta di riserva e di regolamento del commercio internazionale; dall’altro giungere ad accordi bilaterali con i principali paesi emergenti per promuovere l’utilizzo delle rispettive valute nell’interscambio reciproco.


Nell’ultima parte di questo articolo ci occuperemo appunto del possibile ruolo allargato degli Sdr come valuta centrale nella riforma del sistema monetario internazionale, almeno secondo le proposte cinesi.


Rimandiamo invece al prossimo intervento il discorso degli accordi di swap bilaterali fra le valute dei paesi emergenti, che sono destinate ad avere sempre più importanza nel commercio internazionale.


Abbiamo usato questa frase senza il condizionale, perché non si tratta di mere ipotesi: alcuni di tali accordi swap sono già in essere, e comportano l’utilizzo di queste nuove valute nell’interscambio bilaterale fra diversi paesi, per controvalori che già oggi ammontano a diverse centinaia di miliardi. Nuove intese di questo tipo verranno concluse entro pochi mesi, e questa novità è destinata a rivoluzionare tutto il commercio internazionale, compreso quello europeo.


Il futuro è già cominciato, anche se molti fra di noi sembrano non essersene accorti.


Verso un nuovo ruolo degli Sdr?
Al centro dell’attenzione più volte nei loro 40 anni di vita, gli Sdr erano caduti un po’ nel dimenticatoio in questo scorcio di millennio, fino alla crisi di questi ultimi mesi ed al discorso del governatore della Pbc.


Ma innanzitutto, cosa sono e perché nacquero gli Sdr? Gli Sdr sono una valuta – paniere, ossia una valuta composta da quote delle principali valute mondiali. Essi nacquero nel 1969, in piena crisi del dollaro (quella che abbiamo ricordato all’inizio), per sostenere il sistema di cambi fissi creato da Bretton Woods (proposito rivelatosi poi inutile, come visto, in un paio d’anni) e come valuta di riferimento del Fmi, sia per il versamento delle quote da parte dei paesi membri, sia per i prestiti erogati dal Fondo ai paesi in momentanea difficoltà di bilancio. Il loro paniere è stato cambiato più volte: recentemente, il mutamento più significativo è stato rappresentato dalla sostituzione dell’euro a marco tedesco e franco francese, nel 1999. Nel box viene rappresentata la composizione del paniere degli Sdr, negli anni che vanno dal 1981 al 2010.


Composizione degli SDRs (1981-2010)



  • 1981–1985: XDR 1 = USD 0.540 (42%) + DEM 0.460 (19%) + JPY 34.0 (13%) + GBP 0.0710 (13%) + FRF 0.740 (13%)

  • 1986–1990: XDR 1 = USD 0.452 (42%) + DEM 0.527 (19%) + JPY 33.4 (15%) + GBP 0.0893 (12%) + FRF 1.020 (12%)

  • 1991–1995: XDR 1 = USD 0.572 (40%) + DEM 0.453 (21%) + JPY 31.8 (17%) + GBP 0.0812 (11%) + FRF 0.800 (11%)

  • 1996–1998: XDR 1 = USD 0.582 (39%) + DEM 0.446 (21%) + JPY 27.2 (18%) + GBP 0.1050 (11%) + FRF 0.813 (11%)

  • 1999–2000: XDR 1 = USD 0.582 (39%) + EUR 0.3519 (32%) + JPY 27.2 (18%) + GBP 0.1050 (11%)

  • 2001–2005: XDR 1 = USD 0.5770 (45%) + EUR 0.4260 (29%) + JPY 21.0 (15%) + GBP 0.0984 (11%)

  • 2006–2010: XDR 1 = USD 0.6320 (44%) + EUR 0.4100 (34%) + JPY 18.4 (11%) + GBP 0.0903 (11%)


Fonte: sito Internet FMI


La quotazione degli Sdr è data dalla media ponderata dei cambi delle valute componenti il paniere, ed è ufficialmente indicata ogni giorno dal Fmi.


Nella tavola viene indicata la quotazione degli Sdr contro Eur e Usd al 15 luglio 2009.


Quotazioni degli SDRs contro EUR e USD al 15.07.09

























Quotazione SDRs contro EUR e USD



Quotazione EUR e USD contro SDRs



SDR/EUR



1,103000





EUR/SDR



0,906617



SDR/USD



1,554020





USD/SDR



0,643493




Fonte: sito Internet FMI



La proposta cinese di aumentare il ruolo degli Sdr è stata avanzata in modo formale dal governatore della Pbc Zhou in un suo discorso del 23 marzo 2009 (Zhou Xiaochiuan, “Reform the International Monetary System”, sul sito della Pbc www.pbc.


gov.cn).


Il perno centrale del ragionamento del governatore Zhou appoggia sul fatto che la frequenza e la crescente intensità delle crisi finanziarie successive al collasso di Bretton Woods suggeriscono che i costi di un sistema basato su un’unica moneta nazionale superano i vantaggi, non solo per gli utilizzatori, ma anche per il paese emittente di tale valuta (gli Usa).


Quest’ultimo infatti non riesce ad utilizzare la leva del cambio per raddrizzare i suoi squilibri interni, e contemporaneamente rispondere alla domanda degli altri paesi di avere riserve valutarie.


La soluzione è quindi quella di creare una valuta di riserva internazionale scollegata da nazioni individuali, rimuovendo in tal modo i difetti causati dall’utilizzo di valute nazionali, basate sull’offerta di moneta. Una valuta di riserva sovranazionale, gestita da un’istituzione sovranazionale, potrebbe essere utilizzata sia per creare che per gestire la liquidità internazionale: secondo Zhou, questa moneta c’è già, ed è lo Sdr, che “ha le caratteristiche ed il potenziale per fungere da valuta sovranazionale di riserva”. Apatto tuttavia di allargarne lo scopo e la diffusione, con una visione in grande stile, e cioè:



  • stabilire un sistema di regolamento fra gli Sdr e le altre monete, in modo da allargare la funzione degli Sdr, ora accettati solo fra governi e istituzioni internazionali, e farli divenire un mezzo di pagamento comunemente accettato nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie;



  • promuovere attivamente l’uso degli Sdr nel commercio internazionale, nei prezzi delle materie prime, negli investimenti e nella tesoreria delle imprese;



  • creare titoli finanziari in Sdr per aumentarne la diffusione e l’interesse;



  • allargare il paniere dello Sdr per includervi le monete delle maggiori economie. Anche il Pil delle varie nazioni dovrebbe essere preso in considerazione per calcolare il paniere. Qui il discorso va evidentemente nella direzione voluta dalle autorità cinesi: perché il paniere non deve comprendere lo yuan, la moneta del primo esportatore al mondo e di un’economia che ormai è più importante di quella britannica e giapponese, che contano per il 22% nel suo basket?;



  • gestire a livello centrale, da parte del Fmi, le riserve internazionali dei vari paesi. In questo modo il Fmi, slegato da problemi di credito interno ad un singolo paese, potrebbe aumentare l’efficienza nella gestione delle crisi internazionali, mantenere la stabilità del sistema monetario e finanziario internazionale, e al contempo rafforzare in maniera significativa il ruolo degli Sdr.


La posizione del governatore della Pbc è senza dubbio interessante e non manca di indubbi fondamenti logici.


Riteniamo tuttavia improbabile che gli Usa, pur con tutte le contraddizioni che ciò comporta, abdichino al ruolo centrale della loro divisa:


vorrebbe dire che essi rinunciano alla centralità della propria economia.


Che tale centralità sia stata sostituita da una pluralità di aree economiche di rilievo è un dato di fatto ormai acquisito, ma non ancora metabolizzato dagli americani.


Inoltre il ruolo del Fmi è un po’ come quello dell’Onu: può far la voce grossa, ma la sensazione è che, purtroppo, le decisioni vengano prese da un’altra parte. Un organismo centrale del genere, che gestisse tutte le riserve internazionali, necessiterebbe dell’unanimità dei consensi: condizione questa che ha già condannato all’immobilità altri consessi e organizzazioni internazionali, come il Wto e lo stesso Onu.


In ogni caso, anche se il ruolo degli Sdr, come è in fondo auspicabile, aumentasse d’importanza, bisognerà attendere alcuni anni perché ciò si verifichi; mentre gli swap valutari sono già una realtà, come vedremo nel prossimo articolo.



di Giampietro Garioni, docente del Master in Commercio Internazionale e di Economia e tecnica degli scambi internaz. all’Università di Padova
(per maggiori approfondimenti vedi Finanziamenti e credito, Novecento Media)

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