Visita in Italia del ceo della società americana. Visione profonda e ambienti ibridi per fare la vera innovazione. Che è aperta o non è.

Jim Whitehurst, ceo di Red Hat, è stato in tour in Europa a incontrare i clienti, per ribadire o far passare quel paio di concetti cardine che stanno animando l’azione della sua società e anche, perché no, sentire dai clienti i pareri, coglierne il sentiment.

Lo abbiamo incontrato a Milano, fra un meeting e un altro.

Quali clienti? Quelli medio-grandi, strutturati, alle prese, ormai da tempo, con un cambiamento infrastrutturale dell’It che è iniziato ormai da tempo e pare non avere fine.

E qui sta uno dei due pilastri della proposta portata da Whitehurst: il modello di proiezione.

Affiancare la parola open al nome di Red Hat è naturale, anche se non riduttivo. Ma comunque non basta.
Qui si tratta di affermare un open innovation model, che è sì fatto di scelte compiute da Red Hat tempo addietro, ma che propone una visione.

Percorso che deve avere il pregio di essere il più possibile chiaro e, nei limiti, rassicurante se si sta a quando Whitehurst dice di aver raccolto come sentiment a Parigi, incontrando una ventina di Cio, di tutte le industry: «hanno grandi questioni da porre, sentono la pressione di costi, ma devono reagire e agire. Gli serve una visione. C’è un cambio di paradigma in corso e la differenza la fa chi riesce ad allungare la visuale» (e quindi, intende, fra il modello proposto da Red Hat e quello dei concorrenti, come nel campo della virtualizzazione).

Differenza che ci si potrebbe limitare a sintetizzare in quella che esiste fra piattaforma aperta e proprietaria, ma che invece si protrae fino a un modello di innovazione che tiene conto del dover far coesistere elementi ibridi.

Un esempio per chiarire, riguardante il nostro paese. I clienti che Whitehurst ha incontrato a Milano (qualche ceo e general manager) hanno sostanzialmente bisogno di non dover spostare altrove gli It service che gestiscono.
Al contempo li devono rendere competitivi e in linea con le possibilità economiche loro riservate. Devono, insomma, cambiare il business, senza dover uscire dal business per farlo.

La proposta di Red Hat, dice Whitehurst, sta in flessibilità e agilità per creare infrastrutture di servizio ibride, che al di là degli slogan significa coniugare elementi on premise e online, ma tenendo conto dei workload e del fatto che esistono sistemi che devono parlarsi nonostante tutto.

E quindi serve eccome un cardine come OpenStack e serve avere delle piattaforme fruibili come servizio che sappiano porsi oltre i limiti esistenti.

E sempre guardando avanti, in un campo pratico come quello della produzione industriale, Whitehurst non può che vedere il mondo dell’Internet of Things, e dichiara che Red Hat ne è già parte, a livello di proprosta infrastrutturale abilitante.

E riguardo l’altro grande fattore di trasformazione del manufacturing, il 3D printing?
Emergono affinità elettive: «Fenomeno interessante – ci dice – lo stiamo studiando. In fin dei conti i prosumer che lo animano sono figli del modello open».
Quello che ha dato vita alla stessa Red Hat.

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