Viarengo, Vmware: dal cloud non si tornerà indietro

Perché il post-pc e l’It come servizio fanno parte dello stesso percorso. La virtualizzazione client funziona se si vede il Roi.

Vittorio Viarengo, un passato da imprenditore tecnologico (la ligure ViVi Software), e da manager in Bea Systems e Oracle, è Vice President End User Computing di Vmware.
Sta in America, nella Silicon Valley, e ci si trova tanto bene che alle volte si rammarica di faticare nel trovare la parola italiana “proper”, quella giusta. Solamente una sensazione: la parola efficace la trova, invece.

Lo abbiamo raggiunto al telefono per chiedergli, anche, sulla scorta di quanto detto dal suo ceo, Paul Maritz, nel corso del Vmworld di fine agosto,
se davvero i pc spariranno dalle aziende.
«Ci saranno per i prossimi vent’anni» è stata la risposta.

D: Cosa sta accadendo allora?

V: Il punto è che i device mobili non usano Windows. E questi animali (sic) che in America sono già nelle aziende, nel 2014 saranno il doppio. Oltre a Apple c’è un Android che va a mille.

D: E cos’è la strategia post-pc?

Noi la vediamo come una piattaforma di aiuto al Cio. Cosa che non è Windows 7, non è la soluzione.

D: Siete soli a giocare questa partita?

No, abbiamo alleati nel mondo tecnologico, in chi fornisce piattaforme hardware e di rete, come Cisco. Insieme si lavora con Api che esistono già. Anche i service provider sono alleati, nel percorso che porta alla creazione di cloud ibridi.

D: A questo punto del percorso arrivate da una virtualizzazione che non sempre è stata interpretata dalle aziende correttamente. Vi risulta?

È questione di maturazione. Va tenuto conto del fattore di adozione. Le aziende sono partite a fare virtualizzazione perché avevano pressanti esigenze di consolidamento e di fatto iniziando a compiere un percorso che porta al cloud. Chi è nella fase iniziale di questo percorso tratta temi di security, disaster recovery, high availability. Anche noi stiamo imparando dalle best practice che vengono dal campo.

D: Riassumiamo le tre fasi della virtualizzazione?

La prima è quella dell’It production, con virtualizzazione degli asset interni. È la fase di consolidamento.
Poi c’è quella di business production, in cui si virtualizzano le enterprise application. Qui la proposta forte è quella di fare business continuità.
Terza fase, l’It as a service, il cloud. Che è un punto di non ritorno.

D: A suo dire dove sta la maggioranza delle aziende?

Nelle prime due, chi è già in fase tre è la minoranza. Ma le cose stanno cambiando. Quando abbiamo rilasciato i nuovi prodotti che di fatto accelerano il percorso, abbiamo percepito una svolta.

D: Quali prodotti?

Per esempio vCloud DIrector. È stato un grande passo avanti. Consente anche a chi è nella fase uno di proiettarsi fin verso il completamento del percorso.

D: Se dobbiamo vedere un futuro completamente permeato di virtualizzazione non è il caso di fare un tutt’uno fra server e client?

L’infrastruttura è comune, ma stiamo attenti a non generalizzare. Ci sono requisiti diversi. Quando virtualizzi il desktop vai a toccare l’utente finale. La complessità di quest’azione la senti sul nascere. Cioè bisogna anche saper fermarsi. In soldoni, la virtualizzazione client funziona dove si vede Roi.

D: Quali sono i trend?

Fare più sicurezza, provisioning veloce. E anche il follow me del desktop, ossia la mobility.

D: Una tattica che va bene anche per le Pmi?

Per le realtà da 100, 200 persone, il passaggio è proprio il post-pc. Fra due anni ci saremo. Avremo una piattaforma dove si può mettere tutto il lecagy, aprendolo al cloud. Ci stiamo lavorando bene con i service provider.

D: Che scenario prospetta ai Cio delle aziende che incontra periodicamente?

Ai Cio parlo del futuro. Loro vogliono aiuto per gestire l’esistente, e c’è da capirli, dato che vengono da vent’anni di desktop. Ancora di più, al top dei loro pensieri, c’è la necessità di capire come gestire l’invasione mobile. E poi vogliono capire come far uso dei nuovi modelli di collaborazione dettati dal social.

D: Anche in Italia si vive la stessa situazione?

I problemi sono gli stessi ovunque. In America l’iPhone ai propri dipendenti per qualche Cio può essere parte di un retention program, altrimenti perde le persone che gli interessano. Ma le aziende italiane che vedo io sono al passo con i tempi. Magari in alcune c’è rassegnazione sul lato delle politiche aziendali, ma la preparazione tecnologica c’è.

D: L’Italia allora non è così diversa dall’America?

Diciamo che qua fare degli errori nello sviluppo fa parte del gioco, è contemplato, mentre in Italia non è tollerato e perciò ci si frena. Ma abbiamo innovatori italiani che in America ci sanno stare benissimo.

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