Un’autogovernance per il crowdsourcing

Va evitato il rischio che si trasformi in un metodo con cui una casta mette a frutto buone idee dando a chi le crea solamente le briciole.

Di passaggio a Milano, Jeff Howe, giornalista americano di Wired, ha colto l’occasione per fare un po’ di evangelismo sul crowdsourcing.
E per sgombrare il campo dai dubbi ha tenuto da subito a sottolineare che il crowdsourcing non è l’outsourcing.

Lui che, si dice, il termine l’ha coniato, ha fatto qualche esempio per dire cosa è e come funziona, perché è sofisticato e potente al tempo stesso.
Esempi come quello dei biologi che per 15 anni lavorarono alla struttura di una molecola e che poi hanno dipanato la matassa utilizzando la gamification.
È così che attività professionali come la biologia molecolare possono diventare consumer: coinvolgendo anche, e soprattutto, gli ignoti ai quattro angoli della terra.

Si dice che in questi ambiti un terzo dei problemi siano risolti con il project game, perché si riesce a stabilire una correlazione positiva fra successo e distanza dall’obiettivo.

Il punto chiave è che non si deve sapere nemmeno chi può risolvere il problema: potenzialmente chiunque.

Altro esempio è quello del Nasa Tournament Lab: un weekend passato a fare algoritmi con in palio 25mila dollari.

Non è un caso che ci siano in palio dei denari: fra contest, macrotasking, microtasking, crowdfunding, il mercato attualmente cuba quasi 300 milioni di dollari. E secondo Howe il crowdfunding, per fama e presa popolare oscurerà il crowdsourcing.
Suona, però, quasi come una rassicurazione non richiesta. Se sono parte dello stesso contesto, partecipativo, non ha senso soppesarne la fama: non sono in antitesi.

Piuttosto, il futuro: quando arriverà alle piattaforme mobili il crowdsourcing sarà una questione da miliardo di persone.

Allora mettiamoci in guardia: se non si trova una forma di garanzia dei propri diritti intellettuali, c’è il rischio che una cosa romantica e avvincente come la partecipazione democratica al processo creativo, si trasformi nell’ennesimo modo con cui pochi ben inseriti nelle leve del potere riescono a sfruttare la partecipazione popolare, dispensando briciole per una buona idea.

Un’idea può valere zero o cento. E il primo a capirlo deve essere chi ce l’ha. Condividerla, metterla in circolo a beneficio di tutti, è un metodo valido. Ma anche proteggerla e cercare di farla fruttare per se stessi lo è.

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