Un ecosistema customer centrico

Il successo dell’open source non è solo legato al taglio dei costi delle licenze ma al fatto che consente un’evoluzione tecnologica più incalzante

Sono passati poco meno di vent’anni da quando Linus Torvalds creò nel 1992 il nucleo centrale del primo sistema operativo open source, riproponendo la condivisione delle linee di codice tra gli sviluppatori come modello di sviluppo nativo. L’iniziativa ha dato origine a un nuovo modo di pensare e realizzare la produzione del software che non coinvolge più solo una divisione aziendale di colleghi programmatori o un pool di analisti e sviluppatori uniti da un progetto comune, ma una collettività di operatori più o meno specializzati, senza preclusioni di ingresso, il cui tasso di proattività nello sviluppo non ha eguali. Le varie comunità fiorite attorno ai progetti open source, infatti, sono diventate oggi molto popolate e si contraddistinguono per la qualità dei loro prodotti: Linux, Apache od Open Office costituiscono i casi più famosi ma, in verità, esiste una pluralità di soluzioni dedicate ai diversi comparti applicativi, utilizzate con molto successo.

Anche se per la sua natura extraproprietaria è difficile ricavare dati certi sul grado di penetrazione dell’open source, il suo impatto è indubbio: la progressiva modificazione del business e, in generale, dei mercati attraverso la sua pervasiva diffusione sono molto più che dei semplici segnali. Secondo l’Istat, l’adozione di sistemi operativi liberi od open source nelle imprese italiane nell’anno 2008 è stata pari al 12,2% del totale, con punte del 39,7% tra le aziende con oltre 250 dipendenti. In occasione di un convegno intitolato “Open source: alternativa in tempo di crisi o crisi del software proprietario” alcuni player di riferimento, come Engineering, Red Hat, Ingres a Talend, hanno deciso di approfondire questi temi chiamando alcuni esperti che hanno contribuito a indicare i trend legati a questo nuovo approccio di sviluppo.

Il divenire tecnologico come opportunità condivisa

«Oggi l’open source è diventata una realtà consolidata, sufficientemente robusta e affidabile, tale da renderla una valida alternativa al software proprietario – ha spiegato Alfonso Fuggetta, professore ordinario di Ingegneria del Software presso il Politecnico di Milano e amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel -. Le aziende, nel valutare i pro e i contro delle diverse soluzioni applicative da integrare all’interno dell’organizzazione, devono imparare a smitizzare molte informazioni negative che circolano sull’open source, trattandosi di un software come tutti gli altri». L’esperienza insegna che la qualità di un’applicazione non dipende dal fatto che sia più o meno aperta, ma dai risultati che può portare all’impresa sul breve, sul medio e sul lungo periodo. L’accettazione sempre più frequente dell’open source, sia all’estero che in Italia, infatti, non è semplicemente legata al tema economico di un taglio ai costi, attraverso l’eliminazione delle licenze d’uso o alla progressiva alfabetizzazione dello staff It sulle piattaforme aperte e sulle loro modalità di implementazione, di rilascio e di manutenzione, ma il discorso è più ampio. Un’evoluzione tecnologica dal ritmo sempre più incalzante, infatti, ha abituato le persone a vivere l’It come un processo di continua transizione. Aggiornamenti, patch e integrazioni sono diventate una routine operativa che ha reso dinamico il lavoro dell’It ma anche quello del business, abituando l’utenza a vivere nel cambiamento.

Così, se un tempo le scelte strutturali e applicative puntavano a una capitalizzazione degli investimenti tramite l’identificazione di una soluzione solida, stabile e, soprattutto, permanente, oggi le organizzazioni sanno che il ciclo di vita di una soluzione prevede che le modalità di utilizzo e di configurazione sopravvivano per un arco di tempo ridotto. Mentre i Cio sanno che implementando una soluzione devono già ragionare sui tempi e sui modi di quella che andrà a seguire, anche il Cda si è abituato giocoforza a seguire il passo dell’innovazione. Questo ha eliminato alcune barriere di ingresso verso l’open source che, in virtù del suo percorso di perfezionamento continuo, grazie a una cooperazione su scala mondiale che lavora per approntare aggiornamenti e migliorie, fa del cambiamento una delle sue principali ragioni di vita.

Di fatto, la forte componente innovativa apportata al ciclo della programmazione, attraverso un aumento della frequenza di rilascio di nuovi aggiornamenti, spesso nell’ordine giornaliero, hanno stravolto pratiche consolidate il cui processo prevedeva l’accumulo di un certo numero di modifiche, per lanciare sul medio o sul lungo periodo una nuova versione del software. La comunità di utenti e sviluppatori coinvolti nell’attività di debugging, ricerca e correzione degli errori, grazie a questa nuova modalità di rilascio, è maggiormente stimolata a cooperare nella realizzazione del software open source, accelerando così ulteriormente i tempi dello sviluppo e assicurando una proattività d’intervento che aumenta la qualità del risultato.

«Nel caso di un software standard – ha commentato Vito Asta, South Europe & Mea Isv account manager di Red Hat – l’utente che trova un errore, pur effettuando la debita segnalazione al fornitore o alla casamadre, sa che difficilmente verrà ascoltato. La differenza tra l’open source e il mondo proprietario è che il primo propone un ecosistema customer-centrico mentre il secondo ne propone uno in cui al centro c’è il software publisher». In sintesi, le modalità operative dell’open source influenzano positivamente il time to market dello sviluppo, accelerando l’inserimento di nuove soluzioni tecnologiche, aumentando il grado di innovazione con tutti i benefici che ne conseguono.

La customer experience nel circolo virtuoso dello sviluppo

L’open source rappresenta un modello di cooperazione capace di generare una nuova economia della conoscenza: in una logica di condivisione dello sviluppo, la comunità operante, costituita da sviluppatori e utilizzatori, porta un nuovo valore alla produzione del software.

«Con l’open source – ha precisato Stefano Scamuzzo, technical manager in area Ricerca e Innovazione di Engineering – è la prima volta che il fruitore del software può partecipare all’evoluzione del programma che utilizza. Si tratta di un’evoluzione del rapporto tra chi fa e chi riceve. Il concetto più innovativo è quello della community, al cui interno operano gli utenti che fanno business con il software e che quindi devono essere ascoltati dalle aziende che, come noi, si occupano di offrire supporto e soluzioni open source».

Un altro motivo che rende l’open source strategico nella storia della programmazione è la svolta indotta rispetto alla catena produttiva e spostato l’asse della creazione di valore all’esterno delle aziende e delle organizzazioni. A questo passaggio concorrono tre elementi congiunti che caratterizzano la nostra epoca: l’ampia disponibilità di capitale umano evoluto, la digitalizzazione dei mezzi di produzione e distribuzione che rendono possibile una ripartizione del lavoro tecnico in base alle diverse abilità cognitive nonché il potenziamento del sistema di rete globale deputato al coordinamento, alla verifica e alla qualificazione dei risultati prodotti. La natura cognitiva dello scambio e la natura relazionale connessa all’utilità della soluzione sviluppata nell’open source generano un’interdipendenza che costituisce un ulteriore stimolo alla produzione e il fiorire di un indotto di servizi abilitati all’erogazione di supporto e consulenza anche agli utenti meno esperti.

Dalla system integration
alla business integration

È interessante considerare come studiosi e analisti utilizzano una metafora per spiegare le dinamiche evolutive alla base dello sviluppo dei progetti e delle comunità open source, riferendosi a una struttura a cipolla, cioè a più livelli. Mentre il livello più interno è costituito dai project leader e dai cosiddetti mantainer, programmatori che si occupano di mantenere determinati moduli software, coordinando tutte le attività di sviluppo relative a quei moduli, diversi livelli si succedono via via secondo una differenziazione delle competenze. Il quinto livello, che è quello più esterno, è costituito dagli utilizzatori meno evoluti, che dispongono di un grado di competenza informatica basilare e che per questo vengono serviti da una serie di aziende che si occupano di confezionare pacchetti software open source dedicati, facilmente integrabili alle realtà strutturali e infrastrutturali di questo tipo di utenza, che da sola non sarebbe in grado di gestire né la fase di implementazione né quella di rilascio. Il successo di questa formula ha promosso nuove modalità di relazione tra le imprese fornitrici, favorendo una collaborazione spinta anche tra player e system integrator che, su alcuni progetti, hanno dato origine a delle vere e proprie “community of enterprise”, iniziando a cooperare tra loro, per condividere e mettere a fattor comune le specificità dell’offerta e il capitale di conoscenze sviluppate. «L’idea di comprendere i propri concorrenti – ha sottolineato Andrea Ganzaroli, docente di Economia e Gestione delle imprese ed Economia e Gestione dell’Innovazione dell’Università degli Studi di Milano – accelera i tempi di sviluppo e la varietà prodotta, facendo emergere un aspetto innovativo della relazione: la convizione che il valore del proprio servizio non stia tanto nel software ma nella capacità di rispondere in tempi rapidi ai bisogni emergenti che si formano nell’interazione tra imprese e tra queste e il mercato».

Una riflessione che conferma la strategicità dell’impatto dell’open source sui modi e sui tempi della produzione software e, in generale, sulle nuove modalità di utilizzo agganciate al concetto del software as a service (Saas).

A questo proposito Gartner ha previsto che nel 2011 l’open source dominerà le infrastrutture software dei provider che lavorano in modalità cloud.

Anche l’open source di tipo “industriale”, infatti, puntando a offrire la massima qualità del supporto, cioè dei servizi che costituiscono la parte da cui si genera redditività, sposta l’accento su altri aspetti, superando le mere logiche di profitto legate alla proprietà del software. Le aziende che hanno deciso di cavalcare l’onda montante dell’open source stanno, infatti, ponendo le basi per un dialogo virtuoso dello sviluppo, creando nuove condizioni di mercato. «Secondo alcuni dati rilasciati da Gartner circa un’indagine condotta su un panel di 300 aziende – ha continuato Orazio Viele, direttore Ricerca e Innovazione di Engineering -, in Europa occidentale la diffusione del software open source a metà del 2008 era arrivata a coprire tra il 25% e il 45% dell’installato, mentre in Europa Orientale la quota era pari all’80%. Se ne deduce che nelle regioni orientali c’è maggiore attenzione su un uso migliore delle competenze e delle persone per fare le cose, in quanto una grossa componente dell’open source è proprio la creatività del fare e del promuovere innovazione. Un aspetto che impone a noi system integrator di riappropriarci della nostra capacità di fare, tornando a fare gli ingegneri e a essere creativi».

La differenza competitiva giocata sul software

In un momento di crisi come quello attuale, la creatività può diventare una risorsa preziosa per ottimizzare le risorse disponibili e creare quell’innovazione che tanto serve al mercato per generare valore. In questo contesto, la componente applicativa rappresenta un valore chiave, caratterizzando sempre più ogni linea di produzione e di prodotto.

In generale, sono sempre di più le aziende che si occupano di sviluppare software, pur non essendo il loro specifico core business: si pensi al mercato automobilistico, con vetture che integrano intelligenza software ormai di serie, o l’industria del bianco, i cui prodotti incorporano sistemi avanzati come lavatrici che auto-impostano il ciclo di lavaggio o forni a microonde che attivano i programmi di cottura in base al riconoscimento automatico del cibo; in Italia abbiamo tantissime aziende che sviluppano questo tipo di software. Anche la produzione meccanica è ormai progettata prevedendo al suo interno un’intelligenza elettronica che, ad esempio, registra e codifica eventuali guasti e malfunzionamenti, consentendo di velocizzare il servizio di supporto e manutenzione. «Sensori e controller stanno proliferando negli ambienti domestici – ha ribadito Fuggetta – e oggi tutto è diventato digitale. Questo significa che il software non è una commodity e che la capacità di creare innovazione attraverso il software può fare la differenza, aiutando le aziende a vincere la competizione. Il software, dunque, è vitale e strategico e valutando qualità e benefici, l’open source ha un Tco molto interessante. L’unico suggerimento è quello di porre attenzione nella scelta degli standard aperti, che sono molteplici, in modo da assicurare la migliore interoperabilità, integrazione e scalabilità a quelle che sono le proprie specificità aziendali».

«L’innovazione spesso è vista dalle aziende come un costo – ha aggiunto François Méro, general manager Emea di Talend – e questo è il motivo per cui il management sempre più spesso preferisce optare per l’open source, le cui performance sono equivalenti a quelle del software proprietario e con standard di qualità molto elevati. Quello che è importante è vedere nell’open source un modello di business differente, che segue le logiche dell’as a service, proponendo un nuovo modo di vivere il software che da un lato offre il vantaggio di avere a disposizione una community molto consistente addetta allo sviluppo e, dall’altro, dei system integrator specializzati che garantiscono un supporto in real time».

E la capacità dell’open source di farsi carico delle istanze di una molteplicità di utenti e di realtà in una logica di co-creazione del valore tra provider e user, oggi diversifica un catalogo di scelta in cui rientra persino la virtualizzazione, attraverso la gestione di tutti i workload (su un’unica infrastruttura comune) e la Business intelligence, attraverso una piattaforma costituita da tool aperti.

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