Tutela dei diritti del lavoratore (parte IV)

RINUNCE E TRANSAZIONI L’art. 1905 cod. civ. stabilisce che la transazione è il contratto con il quale le parti facendosi reciproche concessioni pongono fine ad una lite tra loro già iniziata o ne prevengono altra che potrebbe insorgere. Elemento impres …

RINUNCE E TRANSAZIONI

L’art. 1905 cod. civ. stabilisce che la transazione è il contratto con il quale le parti facendosi reciproche concessioni pongono fine ad una lite tra loro già iniziata o ne prevengono altra che potrebbe insorgere. Elemento imprescindibile quindi perché si abbia transazione è il reciproco sacrificio delle parti.
E infatti, se una di esse manifesta semplicemente la volontà di accedere alle posizioni dell’altra abbandonando le proprie ricorre la fattispecie della rinuncia e non della transazione.
La transazione, dunque, è lo strumento teso ad evitare un giudizio per stabilire quale delle parti sia titolare della pretesa giuridicamente fondata. Le reciproche concessioni vanno intese, quindi, con riferimento alla definitiva rinuncia di far accertare quale posizione fosse meritevole di tutela giuridica.
Normalmente tali concessioni incidono sui rapporti oggetto di contestazione. Tuttavia l’art. 1965, 2° comma, cod. civ. prevede anche la possibilità di effettuare la c.d. transazione “novativa” per effetto della quale le parti decidono di creare, modificare od estinguere rapporti diversi da quello che ha costituito oggetto della contestazione, componendo in tal modo la controversia.
La transazione deve essere provata per iscritto mentre non sono previsti particolari requisiti per la rinuncia che, però, deve essere effettiva e deve avere un oggetto lecito.
I negozi abdicativi in parola non possono riguardare diritti indisponibili, secondo quanto stabilito dall’art. 1966, c. 2, cod. civ.. Pertanto non sono, ad esempio, valide le rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore che derivano da disposizioni inderogabili di legge o di contratto o accordo collettivo e concernenti i rapporti di lavoro indicati dall’art. 409 cod. proc. civ. proprio perché il lavoratore non può disporre liberamente di quei diritti.
L’art. 2113 cod. civ. stabilisce al riguardo che in tali ipotesi le rinunce e le transazioni sono annullabili se impugnate entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, qualora poste in essere nel corso del rapporto ovvero dalla data della rinuncia o della transazione se avvenute dopo la sua cessazione.
L’impugnativa può essere proposta dal lavoratore con qualunque atto di forma scritta. La disciplina di cui all’art. 2113 cod. civ. trova applicazione anche nei confronti dei diritti riconosciuti in sentenza e per le rinunzie e transazioni aventi ad oggetto gli accessori dei crediti di lavoro (Cass. 27.2.2007, n. 4502).
La disciplina suesposta non si applica però alle rinunce e transazioni perfezionate: in sede conciliativa presso le Direzioni provinciali del lavoro, in sede sindacale, innanzi al competente Tribunale ovvero in sede di certificazione.
La quietanza a saldo recante rinuncia a maggiori somme per una serie di titoli generici costituisce atto di rinuncia da impugnarsi nel termine di sei mesi ai sensi dell’art. 2113 cod. civ. solamente laddove risulti accertato in base all’interpretazione del documento o per il concorso di specifiche circostanze aliunde desumibili che essa sia stata rilasciata nella consapevolezza di determinati diritti e con l’intento cosciente di abdicarli in tutto o in parte (Cass. 14.6.2006, n. 13731).

Fonti – Transazione: artt. 1965 e 1967 cod. civ.; Invalidità delle rinunce e delle transazioni:
art. 2113 cod. civ.; Controversie individuali di lavoro: art. 409 cod. proc. civ.

CONCILIAZIONE E ARBITRATO

L’istituto della conciliazione è previsto per consentire alle parti di formalizzare un accordo con cui comporre una controversia insorta tra loro. Tale accordo può essere raggiunto prima che venga instaurato il processo dando vita, pertanto, ad una conciliazione stragiudiziale; la conciliazione effettuata invece nel corso di un giudizio
è detta giudiziale. E infatti nel processo del lavoro alla prima udienza di trattazione, il giudice verifica se sussistono le condizioni per una conciliazione tra le parti. Tale tentativo, peraltro, può essere promosso anche in qualunque altro momento della fase istruttoria della causa.
Se la conciliazione riesce, le parti redigono e sottoscrivono un apposito verbale nel quale si dà atto dell’accordo raggiunto. Tale verbale costituisce un titolo esecutivo nel senso che ciascuna delle parti potrà agire nei confronti delle altre per il soddisfacimento in via coattiva dei diritti derivanti dall’accordo.
Il tentativo di conciliazione assume, peraltro, un carattere particolare laddove la controversia sia originata da un rapporto di lavoro.
In questi casi, infatti, l’art. 410 cod. proc. civ. prevede un tentativo di conciliazione extragiudiziale che può avvenire innanzi alla Commissione di conciliazione istituita presso la competente Direzione provinciale del lavoro, dove i lavoratori possono anche essere rappresentati dall’associazione sindacale cui aderiscono o hanno conferito mandato, ovvero seguendo le procedure di conciliazione previste dai contratti o dagli accordi collettivi.

Conciliazione amministrativa
Il tentativo di conciliazione in via amministrativa viene esperito indirizzando la richiesta di conciliazione alla Commissione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro territorialmente competente. La competenza territoriale viene stabilita secondo i criteri enunciati dall’art. 413 del codice di procedura civile. Tale richiesta sospende tutti i termini di decadenza per tutta la durata del tentativo di conciliazione e fino a 20 giorni successivi alla sua conclusione ed interrompe il decorso dei termini di prescrizione.
Entro 10 giorni dal ricevimento della richiesta (termine ordinatorio), la Commissione convoca le parti per tentare di risolvere la controversia. Il tentativo deve comunque essere esperito entro 60 giorni dalla richiesta, decorsi i quali esso
si considera comunque espletato ed è, pertanto, possibile promuovere l’eventuale giudizio. Se il tentativo riesce, si forma un processo verbale che viene sottoscritto dalle parti e dal presidente del collegio che ha esperito il tentativo.
Il verbale è depositato, a cura delle parti o della Direzione provinciale del lavoro, presso il Tribunale nella cui circoscrizione si è formato ed acquista efficacia di titolo esecutivo con decreto emesso dal giudice che ne ha accertato la regolarità formale su istanza della parte interessata. Il processo verbale deve essere redatto anche qualora l’accordo non venga raggiunto, indicando le ragioni della mancata conciliazione. La Direzione provinciale del lavoro rilascia copia del verbale alle parti entro cinque giorni dalla loro richiesta.

Commissioni di conciliazione
Le Commissioni di conciliazione vengono costituite in ogni provincia, dal direttore della Direzione provinciale del lavoro. Esse sono composte dal direttore stesso o da un suo delegato, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e supplenti dei datori di lavoro e quattro rappresentanti effettivi e supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Per tutte le controversie riguardanti i rapporti di lavoro subordinato, la Commissione provinciale competente è quella nella cui circoscrizione è sorto il rapporto di lavoro, o si trova l’azienda presso cui il lavoratore è o era impiegato. Per le controversie che, viceversa, attengono a rapporti di lavoro parasubordinato, la Commissione competente è quella nella cui circoscrizione ha il domicilio l’agente, il rappresentante di commercio, o il titolare di altri rapporti di collaborazione.
Va osservato che le sedute di conciliazione sono sempre valide se ad esse partecipano almeno il Presidente e un rappresentante dei datori di lavoro e dei lavoratori.

Conciliazione sindacale
Come già anticipato il lavoratore può anche tentare di comporre la controversia utilizzando le procedure di conciliazione previste dai contratti o dagli accordi collettivi e facendosi assistere, eventualmente, dalle rappresentanze sindacali. I termini previsti per definire la conciliazione e le conseguenze che derivano dall’esito del tentativo, sono in larga parte identici a quelli indicati per la conciliazione amministrativa.
L’art. 411 cod. proc. civ. prevede, però, che in tali ipotesi il verbale di conciliazione venga depositato dalle parti o dall’associazione sindacale presso la Direzione provinciale del lavoro. Spetta quindi al direttore della stessa accertarne l’autenticità e trasmetterlo, successivamente, al Tribunale competente dal quale verrà, con decreto, dichiarato esecutivo, previo accertamento della sua regolarità formale.

Ammissibilità della domanda giudiziale
L’art. 412 cod. proc. civ. prevede che l’espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’eventuale improcedibilità può essere eccepita con la memoria difensiva dal soggetto convenuto in giudizio (tempestivamente depositata) o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza fissata per la discussione della causa. Il giudice, se ravvisa la mancanza del tentativo di conciliazione, o se rileva che la domanda giudiziale è stata proposta prima che siano trascorsi 60 giorni dalla richiesta del tentativo stesso, sospende il giudizio e fissa il termine perentorio di 60 giorni per promuovere la conciliazione. Trascorso l’ulteriore termine di 60 giorni dalla presentazione della richiesta il giudizio potrà, comunque, essere riassunto nei 180 giorni successivi.
In difetto, il giudice, d’ufficio e con decreto, dichiarerà il processo estinto. Va osservato, al riguardo, che l’art. 412 bis cod. proc. civ. non preclude la possibilità di ottenere in sede giudiziale la concessione di provvedimenti speciali d’urgenza o cautelari malgrado il mancato esperimento preventivo del tentativo di conciliazione. Nulla viene stabilito, invece, per i procedimenti finalizzati ad ottenere dal giudice un decreto ingiuntivo.
La Corte costituzionale, tuttavia, ha precisato che anche in questi casi l’azione giurisdizionale è immediatamente procedibile, senza quindi necessità del tentativo di conciliazione stesso, in quanto il giudizio non si svolge nel contraddittorio tra le parti – circostanza quest’ultima che giustifica il tentativo di comporre preventivamente la lite giudiziale che sta per essere instaurata Corte cost. 13.7.2000, n. 276).

Arbitrato: principi generali
Con l’arbitrato le parti decidono di rimettere la risoluzione delle controversie alla decisione assunta da soggetti terzi – gli arbitri – appositamente nominati. A tal fine, le parti possono sottoscrivere un compromesso che prevede la nomina degli arbitri (o di un unico arbitro) per risolvere controversie già insorte tra loro ovvero sottoscrivere una clausola compromissoria, inserita in un contratto o in un atto separato, con la quale si stabilisce che le eventuali controversie derivanti dall’esecuzione o dall’interpretazione dal contratto stesso saranno decise da arbitri. Le controversie che hanno ad oggetto la previdenza e l’assistenza obbligatorie, le questioni relative allo stato e alla separazione dei coniugi e tutte quelle che per legge non possono costituire oggetto di transazione non possono però formare oggetto di compromesso.
Il compromesso e la clausola compromissoria devono essere, a pena di nullità, redatti per iscritto e devono indicare l’oggetto della controversia (art. 807 cod. proc. civ.). L’arbitrato può essere rituale, assumendo le caratteristiche di un vero e proprio processo le cui regole possono essere stabilite dalle parti stesse, nei limiti imposti dalla legge (v. artt. 806-838 cod. proc. civ.).
Gli arbitri redigono il lodo (decidendo la controversia secondo diritto salvo che le parti li abbiano autorizzati a decidere secondo equità – art. 822 cod. proc. civ.), ossia un provvedimento che acquisisce efficacia di sentenza, su richiesta delle parti, viene poi dichiarato esecutivo da parte del Tribunale del luogo ove ha sede l’arbitrato tramite il decreto di omologazione del Tribunale stesso (artt. 823-825 cod. proc. civ.). Pertanto l’impugnazione per nullità va proposta innanzi alla Corte di Appello nella cui circoscrizione ha sede l’arbitrato (art. 828 cod. proc. civ.). In sede di impugnazione non è ammesso il riesame del merito della controversia come oggetto di impugnazione ma solo l’articolazione di specifici motivi tendenti alla rescissione del lodo (Cass. 23.3.2006, n. 6425).
Con l’arbitrato irrituale, invece, le parti convengono che siano gli arbitri a dirimere la controversia mediante un atto avente efficacia negoziale a cui saranno, dunque, applicabili le norme in materia di validità (o invalidità) dei negozi giuridici (art. 808 ter, cod. proc. civ.).

Arbitrato nelle controversie individuali di lavoro
L’art. 808 cod. proc. civ. (arbitrato rituale) stabilisce che le controversie in materia di lavoro possono essere decise dagli arbitri soltanto se tale possibilità sia prevista nei contratti o negli accordi collettivi di lavoro. La clausola del contratto collettivo che prevede la possibilità di ricorrere all’arbitrato è nulla se pregiudica la facoltà per le parti di adire comunque l’autorità giudiziaria, se autorizza gli arbitri a giudicare secondo equità, se esclude la impugnabilità del lodo.
L’art. 412 ter cod. proc. civ. (arbitrato irrituale) prevede che nelle controversie individuali di lavoro le parti possono concordare di deferire agli arbitri la risoluzione della controversia stessa soltanto se il tentativo obbligatorio dio conciliazione previsto dall’art 412 cod. proc. civ. non riesce ovvero se è trascorso il termine previsto da tale norma per il suo espletamento. In particolare, la possibilità di promuovere un procedimento di arbitrato irrituale, anche tramite l’organizzazione sindacale è subordinata alla circostanza che i contratti o gli accordi collettivi prevedano tale facoltà.
In tal caso i contratti o accordi collettivi debbono stabilire:
– le modalità della richiesta;
– il termine entro il quale la controparte può aderirvi;
– la composizione del collegio e la procedura per la nomina dei suoi componenti;
– le forme e i modi per l’espletamento dell’eventuale istruttoria;
– il termine entro il quale va emesso il lodo;
– i criteri per la liquidazione dei compensi degli arbitri.
È prevista anche la possibilità di costituire collegi o camere arbitrali stabili, composti e distribuiti sul territorio secondo regole previste in sede di contrattazione nazionale.
Competente a decidere nelle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo è, in unico grado, il Tribunale in funzione di giudice del lavoro della circoscrizione in cui ha sede l’arbitrato (art. 412 quater, cod. proc. civ.).
Il ricorso deve essere depositato entro 30 giorni dalla notificazione del lodo. Trascorso tale termine, ovvero qualora le parti dichiarino comunque per iscritto di accettare la decisione arbitrale o, infine, se il ricorso stesso viene respinto, il lodo viene depositato nella cancelleria dello stesso Tribunale.
Successivamente, su istanza della parte interessata, il lodo acquista efficacia esecutiva con decreto del Tribunale, che ne accerta però, previamente, la regolarità formale.
Arbitrati in materia di licenziamento e sanzioni disciplinari
Talune ipotesi di arbitrato irrituale in materia di lavoro differiscono dalla disciplina generale nel senso che possono trovare applicazione indipendentemente da una espressa previsione nei contratti o negli accordi collettivi.
Specificamente trattasi:
– dell’arbitrato previsto dall’art. 7 della legge n. 604/1966, secondo il quale nelle ipotesi di licenziamento individuale, da individuarsi attualmente in quella di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970 (norma che segna il campo di applicazione della tutela reale), è possibile definire consensualmente la controversia, in caso di esito negativo del tentativo di conciliazione, mediante arbitrato irrituale;
– dell’arbitrato previsto dall’art. 5 della legge n. 108/1990, secondo il quale in ipotesi di licenziamento nelle imprese che occupano fino a quindici dipendenti (o nelle imprese agricole che occupano fino a cinque dipendenti), qualora il tentativo di conciliazione fallisca, ciascuna delle parti può entro venti giorni deferire la risoluzione della controversia ad un collegio arbitrale, il quale deve pronunciarsi nei successivi trenta giorni con una decisione che acquista efficacia di titolo esecutivo nelle stesse forme previste per il verbale di conciliazione dall’art. 411 cod. proc. civ.;
– dell’arbitrato previsto dall’art. 7 della legge n. 300/1970, in base al quale il lavoratore cui sono state applicate sanzioni disciplinari può, nei venti giorni successivi, promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione e di arbitrato presso la competente Direzione provinciale del lavoro cui deferire il giudizio sulla legittimità delle sanzioni stesse. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia del collegio. Il relativo lodo è impugnabile esclusivamente sotto il profilo della falsa e alterata rappresentazione della realtà, e non anche delle valutazioni di merito formulate, ovvero sotto quello dell’osservanza di disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo (Cass. 23.2.2006, n. 4027).

Fonti – Conciliazione giudiziale: artt. 183, 185 e 409 cod. proc. civ.; Conciliazione extragiudiziale: artt. 410 cod. proc. civ.; Conciliazione amministrativa e sindacale: artt. 410, 410-bis, 411 e 412 cod. proc. civ.; Commissione di conciliazione: artt. 410 e 413 cod. proc. civ.; Arbitrato (nozione e forma): artt. 806-808 cod. proc. civ.; Procedimento dell’arbitrato irrituale nelle controversie individuali di lavoro art. 412-ter e 429, 3 co., cod. proc. civ.; Impugnazione ed esecutività del lodo arbitrale: art. 412-quater cod. proc. civ.

(per maggiori approfondimenti vedi Manuale lavoro, Novecento Media)

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