Techno-venture capital: ora tocca al centro-nord

Il Fondo Ht investe nel genio italiano, donandogli un vero supporto finanziario. Potrebbe essere un’inversione di tendenza in grado di sviluppare il Made in Italy, creando ricchezza e occupazione

L’innovazione non è solo idea, ma anche finanza. E ora lo Stato interviene, sfruttando metodi e investimenti del settore privato, in una collaborazione completa tra sapere, potere e spesa che ha un sapore internazionale. E’ questo il Fondo Ht, per l’alta tecnologia digitale, varato dal Governo per erogare 160 milioni di euro al Mezzogiorno italiano che mostri idee e capacità. E’ la prima volta che c’è un vero venture capital pubblico, come dettagliato nella cronaca di ieri. E solo il tempo colorerà le diverse sfumature dei quattro organismi scelti come partner.


“Un lavoro del genere non è semplice da realizzare”, spiega Anna Gervasoni, direttore generale Aifi, oggi Associazione italiana del private equity e venture capital. “L’idea è nata svariati anni fa quando il ministro di riferimento era Stanca, poi s’è sviluppata con Nicolais; le condizioni per la firma si sono avute solo con Brunetta”. Poiché le competenze sono suddivise tra tre dicasteri su tre esecutivi, l’attività ha rimbalzato su un totale di nove ministri: averla portata a termine è un vero record. La speranza è che smuova qualcosa nella finanza italiana, ancorata a banche commerciali che stanno all’antitesi dei venture capital.


Parallelamente prosegue la vicenda dell’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione, guidata da Renato Ugo. L’Agenzia è stata varata il 28 novembre 2008, ma fu istituita con la finanziaria 2006 e lo statuto è stato approvato con Dpcm l’8 aprile 2008. Sostiene l’istruttoria tecnico-scientifica nella valutazione dei progetti di innovazione industriale (legge “industria 2015”), svolgendo contemporaneamente un’analisi delle necessità in termini di innovazione tecnologica a supporto degli investimenti.


“Stiamo sviluppando un database di esperti tecnologi che possano supportare il Made in Italy”, ha detto Ugo, osservando che questo elenco potrà essere utile anche alle Sgr del fondo a partecipazione statale. Renato Ugo ricorda ancora il grande successo di operazioni analoghe che negli anni ’90 hanno dato grande sviluppo a certa chimica e farmaceutica italiana.


“Questa azione è bottom-up, non top down come al solito”, ha sintetizzato Michele Bagella dell’Università di Roma Tor Vergata. Non si reitera, quindi, nella classica donazione a pioggia, che tanto è stata criticata per decenni e decenni, partendo da investimenti a fondo perduto per poi approdare alla “copertura di differenze competitive”, ovvero ai prestiti a tasso agevolato che comunque non valorizzavano competenze né singole, né in rete. Sembra molto intrigante l’idea di andare a curiosare tra start-up e Pmi che verranno finanziate.


L’approccio attuale del venture capital del nuovo progetto va velocemente nella direzione europea. Per guardare in casa d’altri, in Francia hanno sviluppato un’attività analoga al Fondo Ht già dieci anni fa. “Oggi hanno circa 800 imprese che vanno molto bene”, riprende la Gervasoni: “solo il 10% ha chiuso, collettivamente impiegano 35 mila persone ed investono in ricerca e sviluppo una quota rilevantissima del fatturato”. Certo la situazione è diversa: il sistema finanziario italiano è più piccolo e fragile di quello francese e il nostro quadro normativo è complesso.


Adesso si tratta di completare l’analogo progetto rivolto al resto d’Italia. Anche in questo caso l’iter è iniziato anni fa e ancora non s’è raggiunta la fine. Il Sud forse era prioritario: adesso però si sblocchino i fondi per il resto d’Italia.

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