Silicon Valley è una rete di piazze

Continuo a sentir parlare di innovazione gente nelle sale fisiche, improvvisati intervistatori su webTV a camera fissa, soloni del 2.0 che fuori dagli amichetti non hanno né metodo né audience. Ma gli affari si fanno ancora a quattr’occhi: anche gli americani fanno così.

Bastian Lehmann, fondatore e CEO di Curated.by, è stato intervistato da Techcrunch tv, nelle persone di Sarah Lacy e Paul Carr, in una dozzina di minuti dedicati alla mitizzazione della Silicon Valley come luogo essenziale per il successo di una start-up, anche e soprattutto per i provinciali europei.
In sé il trittico video-commenti-link è interessante, ma non nuovo. Un filone da seguire con attenzione è il confronto tra il conservatorismo europeo e quello statunitense. In Europa agli start-upper tutti spiegano, sorridendo, perché la loro idea è una fesseria e com’è che non avranno successo; negli States, pur esistendo dizionari diversi a seconda della fascia di riferimento (investitori, ma anche utenti), se si parla si dice cosa potrebbe funzionare.
Qui mi corre l’obbligo di precisare che oggi parlare di una caratteristica tipicamente “statunitense” è una generalizzazione necessaria, ma tout court quasi priva di senso, anche se ovviamente contestualizzabile in molti ambienti a stelle e strisce.

Libertà di sbagliare
Un elemento essenziale della Silicon Valley è la possibilità di frequentare eventi ed ambienti giusti in gran quantità. Ma tutti concordano nel dire che poi questi eventi sono troppi e quindi dispersivi. Ma attenzione, si sta dicendo che il mondo del 2.0 è fatto di gente che s’incontra in piazza, come i Greci di tremila anni fa o gli Italiani del Rinascimento.
L’elemento a mio avviso essenziale proposto da Lehmann è che la situazione complessiva nella Valley ti permette di capire in poco tempo se la tua proposta può avere successo. Mentalità e società europee sono più portate a farti passare il tempo ponendo dei distinguo per i quali non devi mollare anche se stai andando male. Negli States puoi tranquillamente fallire, non c’è disdoro, e impari a farlo al momento giusto, cioè subito. La libertà di fare esperienza attraverso errori sembra essere negata agli europei.

C’è 2.0 nel 2.0?
Se qualcuno ha a cuore l’argomento dell’emigrazione di talenti può vedere il video e leggersi i commenti, ma l’obiettivo di questo articolo è più strutturale, quindi faccio alcune osservazioni.
1) Intervistati ed intervistati, studio e props danno un risultato assolutamente identico alle tv private italiane di metà anni ’70;
2) nomi come twitter e facebook sono a malapena citati (e l’intervistato fa business su twitter);
3) la domanda a mio avviso centrale suonava come “cerchi di impressionare l’ambiente 2.0 o il business in generale”?
Le prime due osservazioni tendono a mostrare che l’innovazione è nelle parole e non nei media. La terza domanda, invece, è molto interessante, perché è una voce importante di ciò che succede in Italia: l’ambiente dei would-be start-upper (e dei would-be in generale) cerca essenzialmente il consenso della più ampia gamma di frequentatori del 2.0 e molto meno si focalizza sul prodotto (ammettendo che abbia un’idea). Insomma, il 2.0 è un universo chiuso su se stesso? A me sembra di sì: gli effetti investono una parte di società, le costruzioni restano tra gli addetti.
Mi capita molto spesso di frequentare consessi nei quali anziani quasi-sessantenni parlano di innovazione con dietro le spalle uno schermo di piombo, ovvero una intera schermata web senza neanche un’immagine, di demi-monde nei quali raramente si produce informazione ma al più la si ruba da altri demi-monde, di gente che dice “mi occupo di comunicazioni innovative” con un filo di voce e le braccia conserte a racchiudere un librino da loro stessi curato, immagino come vertice innovativo.

Conclusioni: non c’è 2.0 fuori dal 2.0
Insomma gli affari si fanno al foro, come dicevano i Romani, magari mentre si mangia o si va alle terme. E a differenza di quello che dicono gli esperti, oggi il 2.0 non ha cambiato questo, né in convegni nelle sale, né le videointerviste ad un metro quadro di studio. Continuo a pensare che l’Occidente sia il mondo greco antico con sopra la psicanalisi, che rivoluzionò l’interpretazione dell’uomo.
La prossima rivoluzione, si diceva ormai tanti anni fa, non sarà televista. Neanche sul PC. E allora, come la nebbia di Totò, magari adesso c’è la rivoluzione, ma noi non la televediamo. E andiamo avanti, come i somari.

P.S. I commenti al video di Techcrunch finiscono con il lancio di un evento sponsorizzato da Baia sulle storie di italiani espatriati nella valley, che è una bella cosa. I sei iscritti su Linkedin non sono altrettanto belli, ma confido in una presenza nutrita di californiani che seguono altri social network e abbiano frequentato la sala, ben poco 2.0, dell’incontro con Capobianco (Funambol), Arrigoni (Earl Impact), Marietti (Mashape) e Cocchiglia (M31).

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