Sepa in ritardo, fra standard, inazioni e investimenti fatti

L’area unica dei pagamenti in euro fatica a emergere. Pregi e difetti della rete elettronica in un contesto che non è più nazionale. L’Italia è in media europea. Stabilire una data finale potrà servire se saranno comprese le esigenze delle banche commerciali.

La Sepa (Single Euro Payment Area), ha fatto notare Paolo Marullo Reedtz, Titolare del Servizio di supervisione sui mercati e sui sistemi di pagamento della Banca d’Italia, in occasione del summit “Do You Sepa?” tenutosi all’Università Cattolica di Milano, si incastona fra la Direttiva europea relativa ai servizi di pagamento (Psd), già recepita (in Italia con decorrenza primo marzo 2010) e quella del 2009 sulla moneta elettronica, da recepire.

Questo suo stare a cavallo di due materie affini forse è uno dei motivi per i quali in 21 paesi europei non ci sono ancora le cosiddette payment institution deputate a gestirla.
In tutta Europa sono 58 in totale, in Italia ce n’è una sola.
Le incertezze del periodo transitorio fra le due direttive impongono per Reedtz una sospensione del giudizio sulla Sepa, almeno fino al recepimento di quella sulla moneta elettronica.

Con la Sepa, fa notare, il mercato non è più nazionale, ma europeo. Ed è elettronico, con tutti i pregi e difetti, come fatto notare da Daniela Russo, Direttore Generale Pagamenti e Infrastrutture di Mercato della Banca Centrale Europea. Ossia, il costo fisso unitario dell’operazione è alto, mentre è basso quello variabile, al contrario di quanto avviene nel mondo dei pagamenti fisici.

Con la Sepa, quindi, la differenza la fanno qualità, prezzo, sicurezza e volumi delle transazioni. E proprio questi ultimi mancano all’appello.

Il dato di fatto, allora, è che l’Europa è in ritardo nella realizzazione della Sepa, come rimarcato dall’Ad di Sia-Ssb, Massimo Arrighetti.
A quasi tre anni dall’avvio del nuovo bonifico conforme agli standard Sepa, dice, il sistema finanziario europeo lo ha adottato nella misura del 10%. Troppo poco, dato che il piano di azione prevedeva per il 2010 il raggiungimento di una percentuale del 50% delle transazioni.

Con questo passo l’obiettivo potrebbe essere raggiunto solo fra 20 anni, ha fatto notare Alessandro Rivera del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e Finanze.
Il problema non è tanto italiano: per Rivera il nostro paese non si discosta dalla media in tema di Sepa transfer.
Piuttosto è generale: gli utenti non vengono attratti, non si creano servizi e chi sostiene costi di migrazione ha la certezza di vedere i benefici solo nel lungo periodo. Un lusso per i tempi attuali.
Altra complessità: i costi sono distribuiti fra più operatori, pertanto sono poco controllabili per valutare il progetto nel complesso.

La cosiddetta “end date” che si propone per porre un limite alla migrazione è vista da tutti come una necessità, ma c’è già chi, come la Germania (che detiene la quota più ingente di Sepa transfer) intende affermare i propri diritti.

Un’ipotesi secondo Rivera sono le end date diversificate, ma qui il ruolo della Commissione europea, chiamata a emanare un regolamento, diventa ancora più difficile.

E a proposito della Commissione, Rivera la invita a ritenere il Sepa essenzialmente un servizio di rete, e pertanto ad accantonare la lente del principio concorrenziale nell’osservare il fenomeno.

È necessario, allora, che il meccanismo funzioni in quanto tale, senza riscritture di regole: sarebbe rischioso farlo in questo momento.

Come espresso in una nota a margine del convegno dal Presidente di Sia-Ssb, Carlo Tresoldi, stabilire una data finale entro cui i bonifici e gli addebiti diretti standardizzati a livello europeo dovranno sostituire quelli domestici va bene.
Ma i cosiddetti “requirement”, gli standard tecnici, non risultano omogenei a quelli delle banche commerciali. Il rischio, quindi, è che i soggetti si arrocchino sulle proprie posizioni.

Anche perché, fa notare Gilbert Lichter amministratore delegato di Eba Clearing, non va dimenticato che la Sepa si è presentata nel momento peggiore: quello della più grande crisi bancaria degli ultimi decenni.

Sepa va a rilento, dunque, ma il nostro Paese fa comunque la sua parte, in media con chi si è mosso. Giovanni Sabatini, Direttore generale dell’Abi, ha fatto notare che in Italia la percentuale di Sct (Sepa credit transfer) in uscita è del 13,4%, mentre quella in entrata è del 15,3%. Volume basso, certo, ma sintomo di un cambiamento epocale in atto a una dimensione superiore a quella nazionale.

Per Giorgio De Rita, Direttore Generale di DigitPa, piattaforme e standard sono il nodo da dipanare. Esiste da noi un Sistema Pubblico di Connettività che assorbe 200 milioni di euro all’anno. Un investimento che va messo a frutto. Come? Superando le difficoltà ataviche della Pa: autoreferenzialità (si fanno progetti per l’interno e non per la comunicazione esterna: efficienza versus efficacia), mancanza di sistema, poca intelligenza nei sistemi, distacco dalle logiche che determinano il privato.

Per Stefano Pileri, Presidente di Confindustria Servizi Innovativi, le direttive che determinano un’area europea dei pagamenti unificata (la Psd, già recepita e quella sulla moneta elettronica del 2009, recependa) sono ciò che serve al nostro Paese. Vuoi per attuare la trasformazione digitale delle imprese, vuoi per applicare il principio della tracciabilità dei pagamenti.
Quindi ben vengano queste innovazioni, che vanno sfuttate anche facendo leva sulle peculiarità territoriali. In Italia, spiega Pileri, abbiamo 1,5 Sim per abitante. Il che significa che una metodologia come mobile payment può essere ben sfruttabile.

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