Risanamento e crisi di impresa: il ruolo del turnaround

Con la crisi finanziaria si moltiplica il numero di imprese che necessita di interventi di ristrutturazione

di Alessia Muzio, Ufficio Studi Aifi (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital)


Il risanamento di un’azienda in difficoltà si configura come un processo complesso, che implica l’assunzione di rischi significativi, non soltanto dal punto di vista finanziario ma anche a livello industriale e operativo, che non tutti vogliono, o possono, affrontare.


La diffusione in Italia
In Italia il segmento del turnaround, volto alla ristrutturazione di imprese in crisi, è ancora poco sviluppato e il numero di operatori specializzati in questo tipo di interventi rimane piuttosto basso.


In pochi casi questa attività viene svolta da parte dei fondi di private equity tradizionali che operano in Italia, mentre per i fondi esteri risulta difficile operare in un contesto estremamente differente dal punto di vista legale. Dall’altra parte, le banche spesso non si avventurano nei processi di ristrutturazione, non disponendo di una struttura organizzativa adeguata ad affrontare i rischi operativi connessi alle operazioni di turnaround e, in passato, hanno preferito rientrare dalle esposizioni attraverso il processo di liquidazione della società in crisi. Gli acquirenti industriali, invece, pur con le competenze necessarie per generare valore all’interno dell’impresa, in molti casi sono penalizzati dalla scarsa conoscenza degli aspetti legali e tecnici e delle responsabilità ad essi connesse ed evitano, quindi, tale tipologia di intervento.


In generale, gli investimenti di turnaround sono caratterizzati da un rischio elevato, tenuto conto anche del fatto che la valutazione dell’impresa target non avviene secondo le modalità tradizionali utilizzate dal private equity, ovvero basandosi sulla capacità di generare flussi di cassa. In questa tipologia di operazioni, infatti, l’attenzione è rivolta ad aziende in difficoltà, che non riescono a produrre il cash flow necessario per il corretto funzionamento dell’impresa, spesso addirittura in dissesto finanziario: si va da imprese che non ottimizzano la propria redditività a casi più gravi di insolvenza.


A questo problema si aggiunge il fatto che spesso gli imprenditori tendono a ritardare il ricorso all’operatore specializzato, nella speranza, o convinzione, di poter superare da soli le difficoltà, magari rivolgendosi ad un’ulteriore banca per ottenere nuovi finanziamenti. Di conseguenza, in molti casi l’intervento esterno avviene troppo tardi, quando la situazione si è così aggravata da rischiare di rendere inutile il sostegno. Le banche, pur avendo un rapporto diretto e continuativo con la vita dell’impresa, spesso non hanno la struttura adeguata o le competenze necessarie per far emergere la situazione di crisi.


Dall’altra parte, il fattore culturale gioca un ruolo importante, con una visione negativa dell’imprenditore “fallito” e la mancata comprensione del fatto che la crisi può essere uno stadio del ciclo di vita dell’impresa, che non necessariamente coincide con la sua fine, ma da cui potrebbe partire una fase di rilancio. Del resto, anche la vecchia legge fallimentare, in vigore dal 1942 sino alla fine del 2007, aveva un carattere liquidatorio, concentrandosi soltanto sull’insolvenza, condizione irrimediabile che provoca la perdita dei valori aziendali.


Da ultimo, i problemi di sviluppo di questo segmento vanno ricondotti anche alla mancanza di un track record specifico sul turnaround, che ostacola la raccolta di fondi specializzati, e alla difficoltà di creare team di gestione con competenze adeguate per questo genere di operazioni.



La nuova legge fallimentare
Con la riforma entrata in vigore il 1° gennaio 2008, l’attenzione è stata spostata sullo stato di crisi, una situazione di generica difficoltà dell’impresa che non necessariamente degenera in una condizione di insolvenza, ma può configurarsi come transitoria. L’attuale normativa, inoltre, si concentra sull’impresa, nel tentativo di garantirne la continuità economica, e lascia maggiore spazio all’autonomia privata.


La nuova legge, peraltro, va ad inserirsi in un contesto in cui, a seguito della crisi finanziaria che ha colpito i mercati internazionali, sono numerose le aziende italiane che si trovano a dover fare i conti con una redditività in calo, con l’incapacità di far fronte puntualmente ai pagamenti e con la difficoltà a onorare i propri debiti. Le banche, affette dal problema della liquidità, hanno di fatto interrotto il flusso di finanziamenti nei confronti delle imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, generando un circolo vizioso che ha coinvolto non soltanto le aziende già in difficoltà, ma anche quelle sane. Da una parte, le banche, nel tentativo di migliorare la propria posizione economico-finanziaria, restringono il credito, dall’altra le piccole e medie imprese soffrono per la crisi di liquidità.


Di conseguenza, molte aziende, anche quotate, in questi mesi si trovano ad affrontare, se non proprio situazioni di insolvenza, quantomeno momenti di crisi, osservabili dall’analisi di differenti fattori, quali, ad esempio, la brusca flessione dei flussi di cassa, le difficoltà a pagare i dipendenti e a riscuotere i crediti o i ritardi nei pagamenti da parte dei propri clienti, che richiedono un allungamento delle scadenze. Nell’ultimo periodo si sente sempre più spesso parlare di processi di ristrutturazione, con rinegoziazioni di scadenze e di condizioni dei finanziamenti, ricapitalizzazioni e nuovi piani industriali.


A questo riguardo, la nuova legge fallimentare ha introdotto e disciplinato tre differenti strumenti, utilizzabili in relazione alla gravità della situazione che l’impresa si trova ad affrontare, vale a dire:



  • il piano di risanamento della posizione debitoria;

  • il nuovo concordato preventivo

  • gli accordi di ristrutturazione dei debiti.


L’obiettivo è quello di preservare il valore delle aziende in difficoltà, garantendone la continuità, e tutelare così gli interessi degli stakeholders.


Il primo procedimento, il piano di risanamento, disciplinato dall’art. 67 del Rd 16 marzo 1942, n. 267, si configura come un accordo privato tra l’impresa in difficoltà e i suoi creditori e non, quindi, come una procedura concorsuale. La normativa lascia la libertà assoluta di definizione di forme e comportamenti da adottare nei confronti dei creditori, dal momento che possono essere presentate soluzioni differenti, con differenti percentuali di soddisfazione del credito, adattando la soluzione all’importanza attribuita alla controparte. Il fatto, poi, che il professionista esterno debba attestare solamente la ragionevolezza del piano e, soprattutto, l’assenza di pubblicità costituiscono ulteriori elementi che portano molte imprese a scegliere questo strumento per affrontare le situazioni di difficoltà.


L’articolo 160 della legge fallimentare, invece, riguarda la possibilità, per le imprese in crisi, di ricorrere al concordato preventivo, già previsto dalla normativa del 1942, ma le cui principali caratteristiche sono state riviste. In particolare, il legislatore si è mosso nella direzione di una maggior privatizzazione della procedura, attribuendo grande importanza agli accordi tra debitore e creditore, ai quali viene lasciato ampio spazio di manovra. Tra le principali novità della nuova normativa, va sottolineata l’abolizione del tetto minimo del 40% da corrispondere ai creditori chirografari, mentre viene introdotta la possibilità di suddividere i creditori in classi, offrendo a ciascuna una percentuale di soddisfacimento dei crediti differente. Rispetto alla normativa precedente, inoltre, sono state modificate le maggioranze richieste per l’omologazione della procedura: prima, infatti, occorrevano il voto favorevole della metà più uno dei votanti e quello dei due terzi dell’ammontare complessivo dei crediti. Oggi, invece, le percentuali sono state ridotte ed è sufficiente l’approvazione di tanti creditori quanti rappresentano la maggioranza dei crediti o, nel caso della distribuzione in classi, è richiesto il voto favorevole della maggioranza delle classi. Dunque, è stata introdotta una maggiore elasticità, in un’ottica di salvaguardia dei valori aziendali.


Con la nuova legge fallimentare, infine, è stato introdotto uno strumento completamente nuovo, disciplinato dall’articolo 182-bis, vale a dire l’accordo di ristrutturazione dei debiti. Si tratta di una procedura concorsuale, più semplice rispetto al concordato preventivo, che prevede singoli accordi con i principali creditori, allo scopo di ottenere il consenso del 60% dell’ammontare del debito complessivo. Questa percentuale, unita all’obbligo di soddisfare integralmente i creditori che non abbiano accettato la procedura e alla mancanza dei benefici fiscali che si osservano, invece, nelle altre procedure, ha determinato uno scarso utilizzo di questo strumento.


Gli interventi di turnaround
In questo contesto, dove viene data ampia importanza alla continuità dell’impresa e al mantenimento del suo valore, si inseriscono gli operatori di private equity che effettuano investimenti di turnaround, volti alla ristrutturazione di imprese in crisi. Il supporto di questa tipologia di investitori istituzionali è particolarmente importante, in quanto non si limita alla mera fornitura di capitale di rischio, ma ulteriori vantaggi derivano dal know how manageriale che viene messo a disposizione dell’azienda. Il socio istituzionale, infatti, possiede una profonda esperienza basata su una moltitudine di realtà imprenditoriali diverse ed è in grado di apportare un importante contributo anche in termini di consulenza strategica e operativa. Grazie a questi interventi, che comportano per l’operatore l’assunzione del rischio imprenditoriale e della responsabilità del rilancio, è possibile agevolare il recupero di situazioni deteriorate, contribuendo concretamente al mantenimento, almeno parziale, del valore economico dell’azienda in difficoltà e rimediando, così, a situazioni che altrimenti sarebbero destinate a esiti gravosi sia dal punto di vista economico che sociale.


Quello di turnaround, dunque, è un concetto molto ampio e, di conseguenza, anche le strategie operative che caratterizzano questi investimenti possono essere molteplici. Normalmente, l’intervento dell’operatore di turnaround si suddivide in due fasi distinte: nella prima, dopo aver identificato i fattori che hanno determinato la crisi, si cerca di ristabilire le condizioni di sopravvivenza, riequilibrando, in particolare, gli squilibri tra flussi di cassa attivi e passivi. L’ottica, dunque, è prevalentemente di carattere finanziario, nel tentativo di eliminare eventuali condizioni di insolvenza e generare un sufficiente livello di liquidità che consenta di uscire dalla situazione di “emergenza”. Di fondamentale importanza in questa fase è la capacità di convincere i creditori della bontà del piano, creando un consenso che garantisca condizioni stabili e favorevoli per il recupero dell’azienda.


Una volta superato questo primo momento, l’obiettivo dell’operatore sarà quello di rilanciare l’impresa, realizzando una serie di interventi di carattere industriale e strategico, volti a riposizionare l’azienda sul mercato. Questo potrebbe implicare, ad esempio, azioni volte al taglio dei costi, alla rifocalizzazione sul core business e alla dismissione di quelle parti di patrimonio o di quei rami di azienda considerati non più strategicamente rilevanti e in grado di contribuire al rilancio dell’impresa.


Il processo di risanamento di un’azienda, dunque, è particolarmente articolato, implica differenti tipologie di intervento e coinvolge molteplici attori. Soprattutto in un momento come quello attuale, in cui il tessuto imprenditoriale è esposto ad un elevato rischio di mortalità delle imprese, l’intervento di operatori specializzati in questa tipologia di operazioni potrebbe salvare imprese altrimenti destinate a fallire.



Le operazioni di turnaround in Italia
Diventa allora importante cercare di capire qual è il peso delle operazioni di turnaround nel mercato italiano del private equity e venture capital, analizzando l’evoluzione storica di questa tipologia di investimenti e le caratteristiche degli operatori, in modo da valutare quale potrà essere il loro contributo in questo momento così difficile per i mercati.


Dal punto di vista storico, proprio per le problematiche del contesto normativo viste in precedenza, in Italia il segmento del turnaround si è sviluppato piuttosto tardi e ricopre ancora oggi un ruolo di nicchia rispetto a quanto si osserva in altri contesti, quali, ad esempio, gli Stati Uniti, dove questa forma di intervento si è diffusa a partire dall’inizio degli anni Novanta e da allora ha assunto un rilievo sempre maggiore.


I dati relativi al nostro mercato, semestralmente elaborati da Aifi in collaborazione con PricewaterhouseCoopers, mostrano, in particolare, che gli investimenti in imprese in crisi si sono mantenuti su livelli bassi e stabili fino al 2005, a causa delle incertezze normative e visto l’alto rischio legato a questa tipologia di interventi. Nei due anni successivi, invece, si è assistito ad un importante incremento dell’ammontare destinato a questa tipologia di interventi, tanto che si è passati dai 28 milioni di euro investiti nel 2005 ai 145 che hanno caratterizzato il 2007, grazie anche alla realizzazione di alcune operazioni di dimensioni significative.


Segnali positivi provengono poi dall’analisi del primo semestre 2009: le risorse investite nel segmento del turnaround, infatti, sono più che triplicate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, passando da 22 a 78 milioni di euro. Questo, peraltro, in un contesto di difficoltà per il mercato italiano del private equity e venture capital che, nel periodo considerato, ha vissuto una diminuzione del 61% dell’ammontare complessivamente investito.


Nel corso degli anni, dunque, il peso del turnaround in Italia è cresciuto, fino a rappresentare, nella prima metà del 2009, circa l’8% degli investimenti in capitale di rischio realizzati nel nostro Paese. Ad aumentare è stata anche la dimensione media delle operazioni effettuate, a testimonianza del fatto che le imprese più grandi stanno iniziando a comprendere l’importanza di questi interventi e a rivolgersi ad operatori specializzati per affrontare le situazioni di difficoltà.


Qualcosa, dunque, si sta muovendo nel mercato italiano del turnaround e, come sottolineato, la riforma della normativa sulle imprese in crisi, introducendo molteplici elementi di semplificazione, ha certamente agevolato le modalità di intervento degli operatori, attenuandone in modo importante i rischi. Esistono, quindi, notevoli potenzialità di crescita di questo segmento che, peraltro, deve soddisfare una domanda in forte aumento da parte di un numero crescente di aziende che purtroppo stanno vivendo una crisi dalla quale difficilmente potranno uscire da sole e senza energici interventi di ristrutturazione.


Rimangono, tuttavia, alcune lacune che la nuova legge ha lasciato aperto e che devono essere colmate perché si possa avere un concreto sviluppo del mercato del turnaround in Italia. In particolare, ci si riferisce all’introduzione di un pacchetto di incentivi fiscali per le imprese in crisi, che spinga gli operatori ad utilizzare effettivamente i nuovi strumenti introdotti dal legislatore per preservare il valore e la continuità aziendale.


(per maggiori approfondimenti vedi Finanziamenti e credito, Novecento Media)

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