Recovery as a service: pianificare il ripristino su cloud

Il modello SaaS consente il controllo della tenuta dell’infrastruttura, allineandola alle necessità aziendali, rendendo la business continuity potabile anche ad aziende medie e medio-piccole. Lo spiega Enrico Signoretti, Ceo di Cinetica.

Il Disaster recovery fa parte della più ampia categoria della Business continuity, un intervento spesso costoso per aziende anche medie, figuriamoci medio-piccole.

Eppure si tratta di elementi essenziali, perché di fatto rappresentano l’assicurazione della sicurezza dell’attività e misurano i costi dell’eventuale ripristino. Certamente questa attenzione ha un costo in termini di processi, risorse umane ed infrastruttura.

Facendo un paragone automobilistico, avere un piano di continuità è l’assicurazione incendio e rischi, mentre il piano di disaster recovery è l’insieme dei massimali, degli scoperti e delle franchigie.

Oggi l’avvento del cloud computing permette un’alternativa a vari livelli, semplificando la gestione tecnica ed evidenziando con chiarezza i punti salienti, a partire da tempi e punti di recovery, in sigla Rpo ed Rto.

«Il piano di Dr, disaster recovery, non lo hanno tutti coloro che dovrebbero averlo‚» dice Enrico Signoretti, Ceo di Cinetica, azienda impegnata sulle infrastrutture It e ora entrata nel private cloud.
«È proprio un argomento trascurato, tanto che capita che anche avendo un piano non sia mai stato verificato nel funzionamento».

Proseguendo, la percentuale scende ancora se andiamo a vedere i “massimali” del paragone automobilistico, perché molti non si chiedono «né quali siano in dettaglio i recovery time objective e Recovery point objective, né se sono congruenti con il modello di business dell’azienda».

Sapere per quanto tempo un disastro informatico renda indisponibile un dato servizio è essenziale, ma va correlato all’uso che il business ne fa.

Ridondanza infrastrutturale

Garantire la continuità dell’attività richiede una certa ridondanza: sia che venga sfruttata in parallelo a quella principale, sia che resti per le emergenze, c’è necessità una seconda infrastruttura.

Anche qui le domande sono semplici ma dirette: «Avete una seconda infrastruttura pronta?», chiede Signoretti ai suoi clienti, aggiungendo subito: «Quanto vi costa mantenerla?». Di fatto questa parte del costo è elevata e non sempre riallocabile.

A queste ed altre domande si risponde in modo diretto con un approccio di tipo DRaaS, disaster recovery as a service. Il concetto di Saas (o meglio del più generale paradigma dell’as-a-service) è ormai entrato dappertutto, e quindi il parallelo è interessante e facile da spiegare.

Pagando a servizio si hanno meno processi e meno risorse umane, ma soprattutto non c’è alcuna infrastruttura da mantenere.
Trattandosi d’un modello nuovo ci si può chiedere se funziona davvero e su quali basi opera.

«È un servizio chiavi in mano – riprende Signoretti – che effettua una replica dei dati a basso livello in sicurezza e con semplicità operativa».
E non ci sono problemi di franchigie, in quanto tempi e punti di ripristino sono condivisi con il cliente ed opportunamente verificati.

Il DRaaS conviene

Il modello Saas garantisce il pagamento per impiego, o “pay per use“, quindi le regole di generazione dei costi sono sotto controllo.

Il conto finale viene stabilito applicando le regole ai livelli di servizio specificati da Rto ed Rpo.
Tale semplicità permette di fare tutte le scelte con occhio continuo a budget e al business, anche variandole con estrema agilità, anche in un ambito solitamente affrontato con le pinze.

Ma c’è un altro livello di risparmio, ovvero le reti. «Con il DRaaS non servono linee dedicate», sorride Signoretti, «perché si usano Vpn e dispositivi di accelerazione». È un ulteriore elemento che fa aumentare l’interesse per la business continuity anche in aziende di dimensioni ridotte ma non per questo meno toccate da problemi tecnici.

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