Quando le competenze aumentano il credito del ruolo aziendale

In oltre trent’anni di attività nel settore dell’Ict, Giulio Galetti, direttore tecnico di 3Com, ha maturato una vasta esperienza personale, che ha contribuito a incrementare la fiducia di chi deve scegliere e utilizzare nuove tecnologie di networking e di sicurezza.

Una laurea in architettura, una grande passione per l’informatica, un trascorso professionale nel marketing all’interno di società di primo piano nel panorama dell’Ict per arrivare a ricoprire il ruolo di direttore tecnico di 3Com Italia. L’esperienza di Giulio Galetti è emblematica di come spesso in questo settore esista un’ambivalenza strategica e trasversale tra conoscenza e comunicazione. “Mi occupo di consulenza e di analisi – ci spiega in questa intervista il manager – aiutando i clienti a disegnare o a reingegnerizzare le infrastrutture di networking necessarie al business aziendale, gestendo risorse qualificate in ambito progettuale, intervenendo direttamente su progetti e studi di fattibilità impegnativi. Come coordinatore del gruppo di network consultant analizzo un numero decisamente elevato di progetti realizzati per clienti enterprise, system integrator, società di consultant e via dicendo. Spesso la validazione non è sufficiente e bisogna uscire sul cliente per la definizione puntuale di ogni elemento: verifica dei codici, performance e compatibilità delle configurazioni rispetto agli obiettivi del progetto e via dicendo. La devirtualizzazione del rapporto avviene quando i partner hanno bisogno di un supporto: allora intervengo in prima persona e questo implica una conoscenza approfondita degli ambienti in cui vado a operare: spesso, infatti, la componente venduta è minima rispetto al livello progettuale della soluzione sviluppata”.

Naviga nell’Ict da oltre trent’anni. Quali gli esordi?


“Durante la tesi di laurea, m’imbattei nei terminali Vt100 Digital presenti nelle aule dell’università, che raffiguravano punti e segmenti su schermi con una definizione molto primitiva. Allora non c’erano corsi e si procedeva per autoformazione mediante manuali e tanta esercitazione. Poi sono passato al Basic80 procedendo con le successive evoluzioni”.

Come si è proposto sul mercato?


“A quei tempi il termine sistemista era un’idea più che una professione: ho cercato un lavoro presso le multinazionali americane che utilizzavano macchine in grado di rappresentare la realtà che mi interessava: Ibm, Wang, Digital, Xerox. Quest’ultima mi attirava perché era la prima azienda al mondo a presentare soluzioni di grafica a elevata definizione su macchine con sistema operativo Lisp e dotate di uno schermo a 20″ che utilizzavano un dispositivo chiamato Cat, antesignano dei mouse già nel ’79. Una cosa straordinaria se si pensa che non era quello il suo core business”.

In pratica ha cercato una società capace di rispondere ai suoi requisiti…


“Xerox stava cercando personale e fui assunto. A quel tempo presso la società vigeva l’ottima consuetudine, che tutte le aziende dovrebbero adottare: indipendentemente dal ruolo per cui si era assunti, almeno i primi sei mesi bisognava farli da venditore, partendo dal gradino più basso. Solo così si imparano a conoscere le dinamiche del mercato. Dalle vendite sono passato ad account executive per occuparmi di grandi gruppi, come Fiat e Olivetti. In seguito mi sono trasferito nella sede di Milano, all’interno di un’unità chiamata Xerox System Business Division e quindi alla progettazione networking, quando la rete era ancora un’idea astratta”.

In sintesi in questa divisione eravate i pionieri delle reti locali?


“Proprio così: il nostro compito, oltre a quello di sviluppare architetture di networking, era di spiegare agli utenti tutti i vantaggi di questo nuovo approccio tecnologico, che permetteva di mettere in condivisione le prime laser printer in un periodo in cui imperavano le stampanti a margherita. Spiegare le possibilità annesse alle nuove performance tecniche del printing di nuova generazione era come illustrare pagine di fantascienza. A quei tempi le workstation Xerox disegnavano, realizzavano grafici commerciali e avevano una sorta di Word processing evoluto, con un consistente set di font e tool per il desktop publishing. Per capirci: eravamo presenti su piazza nel ’79 mentre il primo Macintosh avrebbe fatto la sua comparsa nell’84. Non a caso Xerox intentò una causa contro Mac perché la Mela aveva copiato icone, mouse e molto altro a seguito di una visita di Steve Jobs nei laboratori Xerox di Palo Alto. La querelle ebbe risvolti interessanti: quando Apple fece causa a Microsoft per il furto delle icone, perse in quanto la controparte riuscì a dimostrare che a sua volta la Mela aveva preso le icone da Xerox”.

Dopo nove anni in Xerox Sbd perché ha cambiato bandiera?


“Nell’89, pur avendo dieci anni di vantaggio sulle altre società, Xerox stava facendo scelte sempre più precise e “toner-based”. Un vero peccato. Basti pensare che lo stesso concetto di notebook era nato in Xerox nel mitico Parc di Palo Alto a opera di Alan Key che, peraltro, ho conosciuto quando sono passato in Toshiba come direttore marketing, in occasione della presentazione del primo vero notebook che poteva essere trasportato “senza facchini”. Dopo due anni ero direttore vendite e nel ’92 ho colto l’occasione offertami da Memorex Telex di diventare direttore della divisione di networking, quando la società contava 800 dipendenti in Italia e aveva al suo interno anche una linea produttiva, a Cernusco sul Naviglio, dove venivano assemblate workstation ad hoc per grandi utenti. Dopo cinque anni sono passato in Us Robotics come direttore marketing per la parte che si occupava delle apparecchiature Total Control, ovvero dei concentratori di traffico proveniente dai modem analogici e digitali. Avevo un portfolio clienti in cui rientravano i principali carrier europei e le trattative avevano un ciclo di vita nell’ordine dei 12 mesi. Otto mesi dopo la mia assunzione, 3Com acquistò Us Robotics”.

Come si è mantenuto al passo con l’evoluzione delle tecnologie?


“Dormo pochissimo e alla Tv ho sempre preferito leggere la stampa specializzata, libri, periodici”.

Si definisce un direttore tecnico con un’esperienza eccessiva nel marketing. Eppure tra i Cio che abbiamo intervistato molti ci hanno detto di aver scelto i prodotti dell’azienda che lei rappresenta per la sua grande preparazione tecnologica. Adriano Visconti, responsabile dei Sistemi informativi di Bennet, ci ha confessato che quando ha scoperto che lei si era interamente cablato anche la casa al mare in modalità wireless, si è definitivamente convinto della validità del supporto 3Com. Una fidelizzazione giocata sul personale?


“Sono sul mercato Ict da moltissimi anni e nella mia collezione ho circa 7mila biglietti da visita. Ho avuto la fortuna di conoscere e di lavorare con tantissime persone, con molte delle quali ho avuto scambi di idee. A volte le mie analisi e le mie previsioni si sono verificate, contribuendo a incrementare la fiducia di chi le aveva ascoltate. Non mi limito a raccontare e descrivere i prodotti perché tendo sempre a provare il materiale e le soluzioni che racconto. Mi sono da solo cablato casa in tempi non sospetti, perché mi piace l’idea di poter utilizzare il computer praticamente ovunque e avendo la possibilità di utilizzare dei prototipi, ho cominciato a sperimentarli e validarli in privato”.

Visto che ha il polso della situazione, quali sono le tecnologie che le aziende stanno abbandonando e quelle che avranno un futuro vincente?


“L’Italia è ancora un Paese molto arretrato nell’Ict. Imprese anche di grosse dimensioni non si curano assolutamente del fatto che le reti devono resistere anche ad attacchi interni in costante aumento. Inoltre sono popolate da consulenti e operatori, che vanno e vengono e che si muovono all’interno delle reti aziendali senza alcun tipo di filtro. Questo atteggiamento mentale di profonda apertura è anacronistico: la rete non può prescindere da un discorso di procedure di sicurezza interna. Invece, prevale una cultura aziendale che mantiene vivo il pregiudizio che il “babau” sia solo esterno mentre i dati dimostrano l’esatto contrario. Per quel che è la mia esperienza, sono pochissime le aziende che abbiano effettivamente fatto simulazione di un disastro. Per essere realmente efficace, questo tipo di simulazione dovrebbe essere periodica, al fine di verficare se l’azienda sia in grado di resistere, almeno a livello di test. Invece le imprese stilano insieme al bilancio un documentino striminzito sulla sicurezza e questo basta. Eppure la maggior parte delle infrastrutture di rete italiane collassa su un unico “centro stella”, il che significa che se succede qualcosa all’unico core switch aziendale, la società si ferma. Nessuno, però, sa monetizzare i costi di questi blocchi che accadono con una frequenza periodica”.

E le tecnologie del futuro…


“Wi-Max è destinata a far saltare molti equilibri come, per esempio, l’adozione di Umts rispetto alle tecnologie di wireless local loop. In controtendenza, rispetto ai pronostici che affermavano vincente l’Umts nel breve termine, ovvero all’indomani delle follie multimiliardarie per aggiudicarsi le licenze in Europa, scrissi un articolo in cui spiegavo tutte le mie riserve basate sull’idea che la banda larga sarebbe diventata talmente larga che l’Umts rischiava di essere troppo limitato rispetto alle possibilità di un Wi-Fi imminente e di un Wi-Max futuro, con una copertura molto più solida, molto più capillare e meno costosa. Non appena sarà regolamentato, Wi-Max nell’ambito del mobile riserverà molte sorprese: intorno a luglio vedremo partire delle sperimentazioni che contribuiranno a consolidare una tecnologia con delle performance interessantissime. I limiti in questo caso non saranno certo legati all’accesso quanto, piuttosto, a quello che ci sta dietro, ovvero alla capacità di poter smistare il traffico sulle dorsali. Un’altra tecnologia emergente sarà il VoIp, con l’adozione del protocollo Sip, che renderà totalmente libero il cliente nella scelta del miglior telefono, il miglior gateway, la migliore soluzione Sip server e così via”.

Quali criticità trova nel suo lavoro?


“Costante riduzione degli investimenti per le risorse umane e materiali in un rapporto inversamente proporzionale alla richiesta crescente di efficenza ed efficacia. Tutto questo si traduce in un fare sempre più con sempre meno”.

Il segreto per vincere le resistenze di alcune aziende alla pervasività di certe tecnologie?


“Dimostrare che non implementarle comporta dei costi aziendali superiori agli investimenti necessari, persuadendoli con motivazioni concrete che la frase “tanto a me non capita” è pura follia. Attraverso una simulazione, mettere in luce tutte le concause legate a un determinato evento, in modo da consentire una valutazione coerente di tutte le dinamiche in gioco. Questo fa sì che il nostro interlocutore, che difficilmente è l’amministratore delegato, ma più spesso il Cio o l’It manager, possa avere un’idea chiara della soluzione che gli si propone anche in termini finanziari in modo che possa convincere della bontà dell’investimento il proprio border. Oggi sono cambiate radicalmente le regole del gioco: una volta bastava proporre una nuova tecnologia perché venissero stanziati i budget necessari. Ora una tecnologia oltre alla propria validità deve dimostrare che si autofinanzia e che è veramente utile”.

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