Proprietà intellettuale, troppe Pmi la ignorano. Ecco come reagire

Molti imprenditori sottovalutano i vantaggi di una corretta tutela del made in Italy con brevetti e marchi. Così rischiano di perdere competitività

Potrebbe essere un’arma in più per le aziende, ma spesso gli imprenditori la sottovalutano. La tutela del copyright rimane sconosciuta a moltissime imprese, soprattutto quelle di minori dimensioni. Sui motivi di questo ritardo, che in Italia assume proporzioni maggiori che in altri Paesi, si è discusso al primo Forum sulla proprietà intellettuale, presso la Camera di commercio di Milano. La media italiana è 0,6 domande di brevetto europeo ogni mille imprese, mentre a livello comunitario siamo a 4,5 domande, quasi otto volte in più; i tedeschi depositano una dozzina di brevetti ogni mille aziende.

L’innovazione non basta
Non basta puntare sull’innovazione. Nel 2010, più di 140mila società in tutta Italia si sono impegnate nei settori tecnologici più avanzati e nelle attività di ricerca e sviluppo (+2% rispetto al 2009), in particolare nell’informatica che assorbe circa metà del totale. La Lombardia è in cima alla classifica delle regioni, con 30.686 imprese (di cui quasi 15mila a Milano), il 21,9% di quelle nazionali e una marcata specializzazione nell’industria farmaceutica e chimica; inoltre, la Lombardia figura al 47esimo posto su 244 zone europee per numero di occupati nell’hi-tech rispetto al numero complessivo di lavoratori. Ci sono però diversi ostacoli che frenano gli imprenditori, quando devono decidere come proteggere i loro prodotti made in Italy.

Dal segreto al brevetto
Come ha spiegato Giorgio Rapari, consigliere della Camera di commercio milanese, un punto critico è la finanza, perché si tende a sottostimare il valore delle cosiddette “proprietà immateriali” come i marchi, il design e la reputazione commerciale. Tali proprietà sono raramente incluse nei parametri che fanno valutare a una banca se concedere un prestito a una ditta. Così molte aziende preferiscono tutelarsi in modo informale, cercando di mantenere il segreto sui risultati dei loro laboratori e centri stile. È una strada che può essere vantaggiosa, basti pensare alla Coca Cola che non ha mai brevettato la formula della bevanda più famosa del mondo, coprendola con una riservatezza impenetrabile. Ma salvo isolati casi, senza una tutela formale (un brevetto o un marchio registrato, ad esempio), l’impresa si espone a grossi rischi: contraffazione, copiatura, perdita di competitività sui mercati internazionali. E le pmi, che costituiscono la spina dorsale dell’economia europea, sono le più vulnerabili.

Pmi poco attente
L’attenzione delle pmi verso la proprietà intellettuale, ha ricordato George Lazardis, economista presso l’Ufficio europeo brevetti, è piuttosto scarsa. Il 33% delle domande di brevetto proviene da cento aziende, confermando che le dimensioni contano molto quando bisogna investire su questo fronte. Servono circa 25mila euro per una richiesta, senza contare lo sforzo economico complessivo, che dovrebbe comprendere uno studio d’anteriorità (per verificare che qualche concorrente abbia già depositato un marchio o brevetto simile o identico al nostro), tutte le spese legali per difendere all’estero il prodotto tutelato (si pensi alle difficoltà incontrate dalle aziende in Cina) e per gli eventuali contenziosi. Costi elevati, paura di divulgare informazioni segrete, mancanza di una strategia di protezione oltre i confini nazionali: ecco perché molti imprenditori, italiani e stranieri, pensano che un brevetto sia solo una perdita di tempo.

Finanziamenti più concentrati
Qui è intervenuta Loredana Gulino, direttore generale per la lotta alla contraffazione dell’Ufficio italiano brevetti e marchi, promettendo più velocità nel gestire le domande di brevetto e più sostegno economico alle aziende innovatrici. Gustavo Ghidini, ordinario di Diritto industriale presso l’Università degli Studi milanese, ha però segnalato che bisognerebbe cambiare il modo di erogare i finanziamenti. Non più a pioggia ma concentrati, a consorzi e parchi tecnologici che sappiano unire più imprese con obiettivi comuni. Che poi è il modello francese dei poli di competitività: oltre confine ce ne sono più di 70 in tutti i settori hi-tech e ricevono ingenti sussidi dallo Stato. Possiamo contare su positive esperienze, come il parco scientifico e tecnologico Kilometro Rosso a Bergamo e il suo consorzio Intellimech nella meccatronica. Però bisogna compiere altri passi avanti. Una lampada di Artemide, un finanziamento della Fondazione Cariplo alle università per brevettare un nuovo prodotto, o l’identificazione dei contenuti per caricare i video su YouTube: la proprietà intellettuale entra sempre in gioco per evitare fughe di notizie, contraffazioni e violazioni del copyright. Le nostre imprese devono attrezzarsi, perché nell’economia sempre più globale, il danno peggiore è farsi rubare una buona idea.

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