L’open source anima l’economia del sommerso applicativo

Un’indagine condotta da TeDis sull’offerta di prodotti e servizi

Una recente ricerca condotta da TeDis (il centro studi della Venice International University), in collaborazione con il portale di settore Java Open Business, ha offerto un ulteriore contributo nella definizione dello scenario open source italiano, misurando il potenziale dell’offerta in termini di prodotti e di servizi.

Di fatto, è più facile reperire dati inerenti alla dimensione della domanda: secondo l’Istat, nel 2008 le imprese con oltre 250 dipendenti che avevano adottato soluzioni open source erano il 38,70%, mentre la quota di quelle da 100 a 249 dipendenti era il 27,83%, seguita dal 19,98% di quelle con un range da 50 a 99 dipendenti mentre la microimpresa, da 10 a 49 dipendenti, rappresentava un 10,06%. La ricerca del TeDis, diretta a tutte le aziende fornitrici di soluzioni open sorce, ha coinvolto 1.541 imprese italiane di cui era nota o presumibile l’attività nel campo del software libero e si è poi concentrata su un panel circoscritto a 181 realtà, escludendo le individuali, per intercettare le realtà operanti in una logica d’impresa.

«È difficile ricavare dati attendibili sulla reale “potenza di fuoco” delle aziende che compongono il lato dell’offerta di software libero – spiega Antonio Picerni, ricercatore che ha curato l’indagine di TeDis – perché si tratta di un insieme disomogeneo: piccole e medie software house che operano prevalentemente su base nazionale o anche solo locale, società di servizi basati sul software stesso, grandi Isv e player internazionali specializzati nella fornitura di soluzioni o nel supporto per le grandi aziende». In base alle informazioni raccolte a partire dal marzo 2008, gli analisti del TeDis sono riusciti a delineare un quadro interessante, segmentando il comparto nei tre profili più significativi, confermando, per altro, una caratterizzazione geografica allineata a quella generale dello sviluppo It in Italia, dove al top troviamo Lombardia (22%), seguita da Lazio (11%), Toscana e Veneto (10%), Emilia-Romagna e Piemonte (6%) e, a seguire, le altre regioni. Il primo cluster dell’offering open source è dunque formato da piccole imprese piuttosto giovani, con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 19 e appartenenti alla classe di fatturato che va da 100 a 500.000 euro, di cui il 75% viene prodotto da soluzioni aperte. Al secondo appartiene una piccola minoranza di imprese di medie dimensioni, caratterizzate da un fatturato per addetto molto elevato (196.400 euro in media); si tratta di system integrator che hanno spesso tra i loro clienti grandi gruppi industriali, le Telco e la Pa, con una percentuale di fatturato molto bassa generata direttamente dall’open source. Il terzo gruppo, composto da aziende di recente formazione, perlopiù Srl, si caratterizza per una produttività più che doppia rispetto alle aziende del primo cluster; sebbene non commercializzi solo soluzioni open source, infatti, dichiara mediamente di ricavare da esse il 58% del fatturato.

Una notizia interessante, rispetto ai dati raccolti dall’Osservatorio, è che la maggior parte delle aziende a campione che offrono soluzioni open source nel periodo tra il 2006 e il 2007 è riuscita ad aumentare il proprio fatturato, con una media pari a un +35,79%. «In dettaglio, le imprese che fanno un uso esclusivo di soluzioni open source e si sono specializzate in questo settore registrano un aumento di fatturato maggiore rispetto a quelle miste, che propongono anche soluzioni proprietarie – sottolinea Alessandro De Rossi ricercatore TeDis -. Un altro spunto di riflessione è che l’open source sembra facilitare le relazioni con i clienti più grandi, costituendo una sorta di grimaldello che permette di entrare nel mercato più velocemente: lo dimostrano i fatturati di numerose imprese giovani sia per la media dell’età degli addetti sia per l’anno di fondazione che compongono l’offerta da noi analizzata».

Un altro dettaglio significativo dell’analisi è il sommerso legato all’utilizzo dei codici aperti. I ricercatori, infatti, hanno rilevato come esista una quantità di aziende che, senza esplicitarlo, utilizza in modo consistente l’open source per realizzare i prodotti e i servizi. «Un caso per tutti – conclude Picerni – è quello di un’azienda specializzata nel monitoraggio delle reti, che per svolgere questa attività utilizza software aperto. Al cliente, ovviamente, dicono che fanno monitoraggio, anche perché la scelta tecnologica è un dettaglio che a questo tipo di utenza interessa poco o nulla, preoccupandosi piuttosto della qualità dei risultati». Questo contribuisce a chiarire le difficoltà nell’identificare il volume reale degli operatori italiani.

L’analisi del TeDis conferma, per altro, la forte presenza del software libero anche all’interno delle aziende intervistate. Utilizzato in diverse aree di applicazione It, vediamo al top, con una quota pari al 76,4%, le infrastrutture abilitanti per il Web e nei sistemi operativi lato server. Molto bene anche l’area delle applicazioni di office automation, utilizzate dal 67,7% delle aziende con un fatturato tra i 26,1 e 51 milioni di euro e quella di messaggistica aziendale, dove le soluzioni aperte si attestano rispettivamente al 45,5% per quelle sotto i 50 milioni e 40% per quelle che superano il tetto dei 50 milioni. Seguono, con percentuali minori, i sistemi operativi lato desktop (29,1%), i database management (27,3%) e gli applicativi di business interni (16,3%).

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