L’ombra cinese su Ict Trade

Nel discorso di apertura della manifestazione estense, l’Italia gaudente deve fare i conti con una Cina più competitiva di quanto si voglia immaginare.

Lo scorso anno Ict Trade si era aperto sotto il segno di uno slogan, tuttora caro a Maurizio Cuzari, di una Italia gaudente, che si dilettava, malgrè tout, nell’acquisto di gadget e tecnologie non necessariamente indirizzati a facilitare il business, ma a rendere più “piacevole” la vita.
Altri toni nel discorso di apertura dell’edizione di 2005 della manifestazione estense.
”Le nuove tecnologie sono l’unico strumento perché il nostro Paese possa riacquistare competitività” è stato l’esordio di Mattia Losi, chief content officer de Il Sole 24 Ore online.
L’unico strumento in uno scenario che di confortante in effetti ha poco.
E Losi sciorina cifre: un’Italia che investe solo l’1,16% del Pil in ricerca e sviluppo, metà rispetto agli Stati Uniti, che ha 75.000 imprese Ict (contro le 60.000 della Germania), affette per altro da una sorta di “nanismo strutturale” dimostrato dal loro fatturato medio di 266.000 euro l’anno, e che continua a registrare un tasso bassissimo di esportazione di prodotti hi-tech.
Di fronte a questa Italia, Losi propone una Cina un po’ diversa da quella un po’ stereotipata fissata dall’immaginario collettivo. È una Cina che già investe più di noi in ricerca e sviluppo, attestata come è all’1,35% del Pil, che lo scorso anno ha garantito il sostegno governativo a 824 progetti scientifici chiave, che ha aperto nel 2004 40 centri per la ricerca scientifica, che ha depositato 354.000 richieste di brevetto, laddove l’Italia ha faticosamente raggiunto le 3.500.
Per non parlare dell’export hi-tech cinese, che cresce del 20% l’anno, del sempre crescente numero di laureati in ingegneria, quotatissimi per altro presso le università americane, che assegnano a studenti cinesi il 25% dei dottorati in scienze.
L’unico strumento sono le nuove tecnologie, sostiene Losi.
Ma il guado è ancora lungo da atraversare.

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