L’anno delle fibre naturali avrà al centro il made in Italy

L’Onu ha deciso di dedicare il 2009 a un settore che coinvolge milioni di persone nel mondo. Una scelta che, assicura il presidente della Fondazione industrie cotone lino, Romano Bonadei, aiuterà le imprese del tessile

L’Onu ha dichiarato il 2009 Anno internazionale delle fibre naturali: un appuntamento importante per porre al centro dell’attenzione i problemi dei paesi produttori di questa materia prima, ma anche per evidenziare il ruolo dell’industria italiana di settore che, nonostante le crisi e le turbolenze di questi anni, rappresenta ancora il principale polo di trasformazione a livello europeo. B2B24.it ne ha parlato con Romano Bonadei, presidente della Fondazione industrie cotone e lino.

Cosa si intende esattamente per fibre naturali e qual è l’obiettivo dell’iniziativa delle Nazioni Unite?
Le fibre naturali sono ricavate dalle coltivazioni (es. cotone) e dagli animali (es. lana), mentre al contrario quelle sintetiche sono prodotte artificialmente. Attualmente le fibre naturali coprono il 40% del mercato mondiale, contro il 60% di quelle sintetiche e artificiali. Per quanto riguarda l’Anno delle fibre naturali, le Nazioni Unite hanno fatto questa scelta perché si tratta di una delle questioni più importanti per l’economia del pianeta. Centinaia di milioni di persone nel mondo lavorano e vivono grazie alla produzione e alla trasformazione del cotone, della lana, del lino, della canapa, della seta e di tutte le altre fibre naturali. La Fao è stata perciò incaricata dall’Onu di organizzare momenti ed eventi in grado di divulgare l’importanza delle fibre naturali. Si tratta di un’occasione estremamente importante anche per l’Italia, perché siamo uno dei pochi paesi al mondo che produce i tessuti essenzialmente dalle fibre naturali. È dunque un’occasione ulteriore per pubblicizzare il made in Italy che non dobbiamo perdere.

L’Italia è dunque un paese trasformatore di fibre naturali. Che ruolo può giocare la nostra industria per aiutare gli stati produttori, che sono per la maggior parte nazioni in via di sviluppo?
Dal momento che l’Italia è un trasformatore di fibre naturali, è evidente che saremmo anche i più avvantaggiati dalla valorizzazione di questo prodotto: il nostro interesse è che ci possa essere un miglioramento sia per la vita dei produttori che per le condizioni di produzione, in modo che la qualità e la ricercatezza delle fibre sia sempre maggiore.

Di questi tempi si discute molto di rincari dei prezzi delle materie prime. Si tratta di un argomento che riguarda anche il vostro comparto?
Quello delle materie prime è un discorso molto importante, anche se in realtà nel nostro settore esiste piuttosto un problema di sovrapproduzione. Cosa succede: i paesi ricchi, per mantenere le loro produzioni agricole, sono obbligati a erogare degli aiuti (subsidy), altrimenti le loro produzioni avrebbero prezzi totalmente fuori mercato. Nel caso specifico del cotone le subsidy che sono distribuite ai coltivatori americani sono davvero di un ammontare incredibile, stiamo parlando di un qualcosa come 3 miliardi di dollari l’anno, e questo permette al cotone americano di rimanere competitivo. Ma l’effetto perverso è che si crea una sovrapproduzione che va a penalizzare il costo mondiale del cotone: le scorte che si accumulano nei magazzini fanno crollare il valore di mercato, e questo comporta un grave danno per i paesi più poveri, che si trovano a dover lavorare per un prezzo non remunerativo. Il mancato accordo in sede di Wto sulle subsidy all’agricoltura non favorisce certo la risoluzione di questo problema.

In teoria non è un bene per l’industria italiana che il prezzo di una fibra naturale come il cotone rimanga basso?
È un falso problema. Come settore tessile oggi stiamo lavorando soprattutto per la fascia più alta di produzione; l’incidenza della materia prima su certi prodotti di fashion italiani può essere inferiore anche al 5% rispetto prezzo finale. Il nostro settore tessile ha infatti cambiato strategia, per superare gli anni di grande difficoltà: a livello di valore siamo riusciti a mantenerci più o meno sugli stessi livelli del passato, ma in termini di volumi continuiamo ancora oggi a scendere, anche perché dobbiamo spostarci sempre di più sulla fascia più alta di produzione.

Ma in questo modo non esiste il rischio di trasformarci in una nicchia del mercato globale, con numeri eccessivamente ristretti?
Sicuramente ci sono grossi elementi di rischio ma d’altra parte non esistono alternative. Il costo orario italiano ed europeo (circa 20 euro) non può essere certo paragonato a quello dei paesi emergenti. Nella produzione di massa non possiamo assolutamente confrontarci con queste realtà, ed è ormai da diversi anni che questa fascia di produzione è stata abbandonata in Italia e in Europa.

Se la fascia bassa ci è preclusa, quali sbocchi ha sul mercato mondiale la produzione italiana?
In realtà esiste uno spazio di azione limitato anche per gli articoli di fascia media, che le nostre imprese riescono a produrre essenzialmente grazie a una politica di delocalizzazione. In linea più generale l’industria italiana presidia bene il mercato globale. Rappresentiamo un terzo della produzione europea di trasformazione di filati e tessuti, e siamo ancora il terzo paese nel mondo come export di tessuti, con una quota del 13%. Sino a quindici anni fa eravamo addirittura al primo posto, ora invece nelle prime due posizioni ci sono Cina e Hong Kong. Di positivo per noi c’è che sul mercato mondiale si stanno affacciando milioni di nuovi ricchi che non possono che apprezzare la qualità del prodotto tessile italiano.

In questa situazione, che tipo di importanza hanno i distretti industriali?

I distretti di aziende radicate nello stesso territorio sono stati in passato un esempio interessante, ma oggi a mio giudizio non stanno dando grandi risultati: attualmente è più facile creare degli accordi a livello aziendale senza bisogno di alcun supporto da parte dei distretti. Qualsiasi impresa sopravvissuta alle crisi degli scorsi anni è infatti talmente attrezzata che non ha la necessità di sottostare a dei consorzi specifici. È invece auspicabile (e lo stiamo facendo ad esempio con Milano Unica) che a livello di trading si organizzano consorzi e fiere rivolte alla vendita e non all’attività industriale.

Anche il tema dell’energia è molto dibattuto: il caro-bolletta dell’Italia che conseguenze provoca per il vostro settore?
È una tragedia. Un settore come il nostro ha ovviamente costi di trasformazione energetica che sono, in percentuale, superiori persino a quelli della manodopera. Per di più ci ritroviamo nella disastrosa situazione italiana che paghiamo l’energia quasi il doppio rispetto ai nostri concorrenti europei. In questi decenni abbiamo investito molto nell’efficienza dei nostri stabilimenti, ma il problema rimane e per il momento l’apporto delle fonti alternative, di cui auspichiamo la diffusione, non è certo sufficiente a far lavorare le nostre industrie.

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