La radiofrequenza un potenziale da sfruttare

L’ RFID sta rivoluzionando il concetto di tracciabilità e lo farà ancor di più grazie ai nuovi sistemi EPC. L’Italia, però, per questioni culturali e diatribe tecnologiche, rischia di arrivare in ritardo

Nel comparto dell’identificazione automatica, l’RFID (Radio Frequency Identification) costituisce il segmento It con la crescita più rapida (anche se la quota di mercato è di difficile quantificazione). Grazie all’utilizzo di onde radio per la trasmissione dei dati fra i tag e i lettori, l’RFID offre agli utenti un accesso alle informazioni memorizzate che non necessita di visibilità diretta né di prossimità fisica, anche in condizioni sfavorevoli.


L’affermazione progressiva di questa tecnologia, quindi, va da sé e, addirittura, nel giro dei prossimi cinque anni dovrebbe portare a maturazione quella che, attualmente, costituisce la sua espressione più avvenieristica: l’EPC (Electronic Product Code). A differenza dei sistemi tradizionali RFID, che trovano principale applicazione all’interno di aree limitate, l’EPC estenderà i sui benefici lungo l’intera supply chain. Nello specifico, l’RFID rappresenta l’unione di un componente elettronico detto tag e di un lettore, per identificare oggetti in contesti principalmente produttivi (negli anni Sessanta i primi casi apparvero nel campo automotive, per gestire la tracciabilità delle vetture in catena di montaggio, all’ingresso dei forni di verniciatura). Le applicazioni EPC, invece, pur implicando ugualmente l’utilizzo della radiofrequenza per gestire il flusso prodotto, possono avere impieghi più ampi anche se, allo stato attuale dei fatti, si trova ancora in uno stadio di sperimentazione, adottato effettivamente da pochissime società al mondo.

Un passato recente


Il sistema EPC è stato sviluppato dall’Auto-ID Center nel ’98 al Massachusetts Institute of Technology, in un progetto che ha coinvolto università, fornitori di hardware, software, networking nonché produttori e distributori di beni di largo consumo. Un panel, insomma, di possibili portatori di interessi, mosso dall’obiettivo di sviluppare un sistema di codifica standardizzato ed economico per inserire un tag a radiofrequenza (necessariamente a basso costo vista la diffusione) su ogni singolo oggetto del settore transmoving consumer good, cioè beni a largo consumo. Ogni tag, infatti, identifica l’oggetto con un preciso codice, univoco in tutto il mondo, chiamato appunto EPC. Si tratta di un numero seriale, simile all’attuale GTIN (Global Trade Identification Number), il comune codice a barre, costituito da un prefisso che identifica il produttore, un codice dell’articolo e un altro numero che si riferisce alla precisa istanza.


Con il GTIN, però, due oggetti uguali sono identificati con un medesimo codice, mentre nell’ottica EPC ogni prodotto dispone di un suo identificativo specifico. Tutte le informazioni relative a eventuali trasformazioni vengono registrate, come ad esempio avviene con il telepass autostradale, che tramite punti fissi di rilevazione è in grado di registrare in modo univoco il passaggio delle vetture attraverso il casello.


I dati, disponibili in tempo reale e in sicurezza, sono inseriti all’interno di un sistema informativo e messi a disposizione su Internet, attraverso l’EPC Global Network che permette alle aziende di reperire e analizzare tutti i movimenti del proprio EPC, non soltanto quelli relativi al processo logistico.

Interno ed esterno


Se l’RFID non permette la comunicazione con attori esterni offre, comunque, rispetto ai tradizionali codici a barre, il vantaggio di non richiedere l’intervento umano per le operazioni di lettura. In ambito EPC, inoltre, le informazioni relative al prodotto possono addirittura essere condivise in rete. Un’applicazione tipica prevede un numero identificativo univoco per ogni pallet, cartone o singolo item, riconoscibile da tutti gli attori coinvolti nella supply chain, dal produttore al trasportatore, fino al distributore, che possono avere libero accesso a tutti i dati di tracciabilità relativi e metterne, a loro volta, a disposizione degli altri attraverso la rete.


Un caso specifico di RFID, che non implica la condivisione di dati con attori esterni, è, invece, l’utilizzo dei tag per segnalare quali operazioni devono ancora essere eseguite su un pezzo in lavorazione per ogni stazione della linea di montaggio.


Per l’EPC, tra i vantaggi effettivi, va annoverata, invece, la possibilità di avere l’informazione completa sul prodotto lungo tutta la filiera, comprese le varie manipolazioni subite, con un netto incremento della sicurezza. E questo non solo per gli articoli alimentari. Nei processi base di movimentazione merci emerge, infatti, la maggiore accuratezza dell’ordine (con perfetto allineamento tra lista di prelievo, carico effettivo, bolla di evasione e fattura), la semplicità di gestione dell’inventario (con l’esatta posizione della merce in magazzino) e la riduzione delle rotture di stock.

Sperimentazioni a rilento


Se all’estero, però, di EPC si parla da un po’ di anni, in Italia, i progetti non possono ancora essere definiti “diffusi”, principalmente per un problema tecnologico: le frequenze radio previste da Auto-ID Center per il funzionamento del sistema, nel nostro Paese, non sono infatti disponibili.


La frequenza ottimale risulta essere la UHF, da circa 860 a 950 MHz, che garantisce il miglior compromesso tra distanza e accuratezza di lettura, permettendo anche il riconoscimento di materiali difficili come liquidi e metalli. Negli Stati Uniti, dove il progetto iniziale è stato sviluppato intorno a una frequenza di banda di 915 MHz (in Italia riservata alle telecomunicazioni cellulari) i primi esperimenti risalgono agli inizi degli anni 2000. Da noi, invece, si sta procedendo a rilento. A livello europeo, solamente da quest’anno, l’ETSI (European Telecommunications Standards Institute) ha reso disponibile una banda in campo UHF da 865 a 868 MHz, che però in Italia non è ancora stata adottata, con il palese rischio di limitare i progetti in area EPC o, addirittura, di renderli “carbonari”, facendo crescere in modo incolmabile il divario tecnologico tra il nostro Paese e gli altri, soprattutto anglosassoni. In realtà, un freno alla diffusione dell’EPC deriva dal limitato interesse che le imprese italiane stanno dimostrando. «Una domanda reale per ora non emerge, se non negli Stati Uniti – si rammarica Massimo Bolchini, direttore Area Tecnica di Indicod, associazione di categoria che riunisce oltre 30.000 società comprensive di produttori e distributori dei beni di largo consumo -. Se ne conoscono ancora poco le potenzialità e saranno necessari almeno quattro o cinque anni per una sua adozione reale e significativa». Il know how deve essere diffuso sia da un punto di vista teorico che pratico, dal lato delle infrastrutture, dei processi e dei vantaggi e, soprattutto, la sperimentazione deve proseguire. «Esistono, infatti, ancora problematiche tecnologiche – prosegue Bolchini – che devono essere risolte e anche la riorganizzazione dei processi costituisce un campo su cui si deve ancora lavorare».


Ma se il codice a barre fatica a cedere il passo all’EPC, rappresentando tuttora il suo principale concorrente, i tempi lunghi previsti per l’affermazione definitiva di questo tipo di applicazioni non dovrebbero rappresentare una minaccia: «Per ora non vedo all’orizzonte tecnologie in grado di scavalcare questa e di rendere obsoleti gli sforzi fatti finora – prosegue il manager -. L’obiettivo è di coinvolgere un milione di aziende nel mondo, soprattutto piccole e medie, quindi non può essere un sistema troppo complesso e la radiofrequenza rappresenta un mix ideale».

Consigli pratici


Se, teoricamente, un’azienda italiana volesse, quindi, avviare delle sperimentazioni, dovrebbe muoversi con cautela e, prima di tutto, comprendere chiaramente le potenzialità e il funzionamento della tecnologia EPC. Solo in seguito a questa prima fase di formazione, la prassi impone di compiere uno studio di fattibilità sull’inserimento del sistema all’interno del proprio ciclo produttivo, per capire l’impatto sui processi logistici, sostituendo le operazioni manuali con una gestione completamente tecnologica (nel nostro Paese alcune aziende stanno già procedendo con studi di fattibilità). A questo vantaggio, si somma la visibilità in tempo reale delle informazioni, che consente di gestire al meglio le scorte, di rendere più efficiente la ricezione della merce, di ridurre i problemi di out of stock di vendita, di tenere sotto controllo la rotazione delle date di scadenza. Il calcolo dei costi legati all’installazione delle infrastrutture deve tenere conto dei tag, del software e della consulenza progettuale.


Il prezzo del tag costituisce l’aspetto principale, da sempre al centro di dibattiti, dato che, fino a due anni fa circa, raggiungeva addirittura i 50 centesimi di dollaro, cifra che oggi si aggira intorno ai 10-12 centesimi, per volumi superiori al migliaio di pezzi. La discesa dei prezzi ipotizzata, dovuta allo sviluppo e alla crescente diffusione della tecnologia, si sta quindi verificando. L’obiettivo, comunque, è raggiungere i 5 centesimi di dollaro, soglia che renderebbe fattibile, dal punto di vista economico, applicazioni diffuse e legate all’imballaggio secondario.


Dopo aver compiuto lo studio di fattibilità, l’azienda ha, quindi, in mano il quadro della situazione, il Roi atteso e conosce il valore netto dell’investimento, il tasso di redditività, i tempi, l’indice di rischiosità e altri fattori determinanti per far decollare un progetto. Solo con un progetto pilota, però, si può valutare correttamente se il sistema EPC è in grado di apportare all’azienda effettivi vantaggi. «Bisogna, infatti, tener presente che la tecnologia è ancora in una fase di sperimentazione – spiega Antonio Rizzi, professore associato di Industrial Logistics e Supply chain management, dipartimento di Ingegneria industriale, Università di Parma – e che alcuni aspetti devono essere puntualizzati, ad esempio, la posizione del tag sul prodotto o l’influenza delle condizioni ambientali sull’efficienza di lettura».


Su un sistema EPC possono infatti avere influenza il materiale con cui il prodotto è costruito (liquido, plastica, metallo e così via), le condizioni ambientali di contorno (superfici riflettenti, umidità, rumori di fondo, gabbia di Faraday), l’area di applicazione (produzione, spedizione, ricevimento) e il tipo di apparecchiature utilizzate, dal momento che tag, reader e antenne non sono unici, ma ne esistono di diversi tipi.


«A trarre i maggiori benefici dall’implementazione di un sistema EPC potrebbero essere le Pmi – sottolinea il professore – proprio per la loro impostazione della logistica, più arretrata rispetto alla grande impresa, che negli anni ha già ristrutturato i propri processi introducendo i codici a barre e la radiofrequenza».


A maggior ragione, quindi, bisogna tenere sotto controllo i costi. «La spesa sostenibile non è calcolabile senza conoscere i flussi e le dimensioni medie dell’impresa coinvolta – esemplifica Rizzi -. Se si considera una multinazionale che produce 100 milioni di cartoni all’anno: con un costo di 10 centesimi di euro a tag, la spesa annuale sarà di 10 milioni di euro. È necessario trovare il modo di bilanciare l’investimento. E non è facile, dal momento che i processi di una società da 100 milioni di cartoni all’anno sono già ottimizzati; altrimenti non potrebbe rimanere sul mercato. Invece un’azienda con flussi inferiori richiede investimenti più ridotti; probabilmente non si è mai preoccupata di ottimizzare i costi logistici, perché magari ha un prodotto particolare, di nicchia, in cui l’aspetto preponderante è quello commerciale, e si rivolge a un cliente finale disposto a sobbarcarsi una parte dei costi di produzione».

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