La quotazione in Borsa non è solo per grandi imprese

A differenza degli altri paesi occidentali, in Italia sono ancora poche le società che intraprendono questo percorso

Per decenni l’economia italiana si è fondata su un tessuto imprenditoriale fatto di medie e piccole imprese, capace di adattarsi ai cambiamenti di scenario del contesto internazionale grazie a una buona dose di flessibilità e a un costo del lavoro tutto sommato più contenuto rispetto a quello degli altri paesi occidentali. Da un po’ di tempo a questa parte, però, questo modello è entrato in crisi e la ridotta dimensione delle aziende italiane sembra invece essere diventata uno degli ostacoli principali alla competizione sul mercato mondiale. Avviare progetti di internazionalizzazione, investire in ricerca e sviluppo e capitale umano rappresentano infatti percorsi imprescindibili per cogliere le opportunità della globalizzazione, ma che le nostre piccole imprese raramente riescono a intraprendere per carenza di fondi e di cultura manageriale.

Piccolo non è bello
Di questi temi si è parlato in occasione dell’incontro “Patrimonializzarsi per crescere e competere”, organizzato da Assolombarda e Borsa Italiana. «Quella del “Piccolo è bello” è una favola – ha spiegato senza troppi giri di parole Luca Garavoglia, esponente di Confindustria e presidente di Campari spa -. La verità è che piccolo è brutto. Le nostre aziende ne sono coscienti ma ancora non riescono a diventare grandi e importanti. La capitalizzazione in borsa rappresenta la via migliore per ottenere una crescita duratura, ma incontra ancora molte resistenze. Il problema è soprattutto culturale: quando le imprese italiane vogliono espandersi, solitamente lo fanno nel modo per loro più semplice e abituale, ovvero aumentano il proprio capitale di debito chiedendo prestiti al sistema bancario».

Poche Pmi in Borsa
Per questo, a fine 2009, in Italia erano quotate alla Borsa di Milano soltanto 291 società nazionali, contro le 704 della Germania, le 684 della Germania e le 2.179 del Regno Unito. Il ritardo dell’Italia è determinato soprattutto dalla differenza nel segmento delle imprese di media e piccola capitalizzazione (sotto i 100 milioni di euro), che rappresenta appena il 23% delle società quotate in Italia, contro il 42% della Francia, il 59% della Germania e il 60% della Gran Bretagna. Eppure, secondo un’indagine di Mediobanca citata da Giorgio Basile di Assolombarda, nel nostro paese esistono ben 3.500 imprese che hanno tutte le carte in regola per quotarsi in borsa.

I benefici della quotazione
I vantaggi della quotazione – secondo i dati di Borsa Italiana – sono significativi non soltanto per quanto riguarda l’iniezione di cultura manageriale ma anche dal punto di vista del bilancio: il fatturato delle imprese quotate cresce in media del 18% annuo nel periodo successivo all’ingresso in borsa, a fronte di un dato medio del 7%. Quattro Spa su 5, infatti, dichiarano che senza la quotazione il loro tasso di sviluppo sarebbe stato inferiore. Anche gli investimenti aziendali beneficiano di una maggiore capitalizzazione delle società: il tasso annuo passa dal 15% prequotazione al 23% degli anni successivi. Eppure la percezione degli imprenditori italiani rispetto alla prospettiva dell’ingresso in Borsa rimane sostanzialmente negativa: secondo Basile, l’aspetto che preoccupa maggiormente non è tanto la compliance, ovvero la stretta aderenza alle regole di mercato che l’ingresso in Borsa comporta, quanto piuttosto la possibilità di perdere il controllo della società, evenienza traumatica per un capitalismo familiare come quello italiano.

Il problema del controllo
«Occorre non demonizzare chi vuole mantenere il controllo della proprietà – ha aggiunto Basile -. Bisogna piuttosto favorire l’ingresso in Borsa di queste società. In questo senso abbiamo recentemente lanciato le Azioni sviluppo, che consentono di reperire adeguate risorse finanziarie favorendo nel contempo la continuità dell’assetto di controllo». «Il nostro è un paese che favorisce la piccola dimensione delle imprese – ha concluso Anna Maria Artoni, presidente di Confindustria Emilia Romagna -, sia sotto l’aspetto fiscale che per la rigidità esistente nel mondo del lavoro. La crisi economica globale ha però accelerato le sfide della competizione; si potrebbe dunque dire che piccolo non è bello se poi le imprese non riescono a sopravvivere. Le nostre aziende devono perciò accelerare nel loro percorso di crescita strutturale, se non vogliono diventare il fanalino di coda dei mercati internazionali».

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